Mio caro piccolo di storno |
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io piccolo caro di storno, perché dovevo ieri imbattermi nella tua esistenza deperita, sulle soglie di casa, - dove da chissà quanto ti aveva precipitato nell'inedia la caduta dall' albero-, appena in tempo per salvarti dal gatto che ti era già sopra, e nello stesso punto, del selciato del cortile, in cui mi avvedevo a sera del rondone che non riusciva più a sollevarsi in volo, mentre già un altro gatto condominiale, all' estremità opposta di un'autovettura, non aspettava che di ghermirlo,- se tu nella cui salvezza facevo più affidamento, perché allo stecco potevo alimentarti, e deglutivi, ed a lungo ti eri abbeverato ieri in gabbia, sei già morto così orribilmente, con tanta tua pena, proprio per mano e per inavvertenza di me stesso, che ti avevo fortunosamente salvato e mi ero obbligato a soccorrerti, mentre il rondoncino, per il quale trepidavo tanto,- in quanto che temevo che avesse un'ala rotta e non voleva saperne di alimentarsi in cattività, appigliato alle reti della gabbia nella sua integrità ribelle,- già stamane ha ripreso il volo dall' alto ed è dileguato felicemente via. In lacrime, alla tua morte, riordinavo la veranda che mi era stato così gravoso adattare al mio vano sforzo di recuperati alla vita, vivendo come un peso immane il dono del cielo talmente grande di poterti soccorrere, l'evento che i miei giorni estivi venissero trasformandosi nella sola tua assistenza assillante, quasi che un'altra fosse oramai la mia ragione di vita, che quella di soffrire e di scrivere per la meraviglia continua della vita animale. Giù nell'aiuola grande in cui per tutta la mattina ieri avevi gridato, così mi è stato detto dai vicini di casa, in attesa vana che dai rami degli alberi i tuoi genitori ti venissero in aiuto, un gatto mi fronteggiava all' ombra della verzura nelle sembianze di un'ironia atroce, sbadigliandomi in volto quanto ogni inutile precauzione per sottrarti alla sua, alla loro insidia in agguato, si sia tramutata nella trappola mortale in cui chi doveva soccorrerti ha precipitato una più penosa tua fine. Riponendo le piante di basilico sul punto stesso della tua disgrazia finale, tornavo già a ricostituire l'ordine della mia quotidianità domestica che così brevemente, e già con tanto mio affanno febbrile, avevi sconvolto solo per un giorno, ma è quanto è bastato per piangerti ed amarti come alla loro morte non ho pianto ed amato i miei due uccellini con i quali ho convissuto per anni, talmente dolce è stata la tua remissione alle mie cure letali, il tuo abbandono alla morte nella scia di tenerezza che emanavi, mentre a poco a poco tu fluivi via. Trepidavi ancora tra le mie mani, che ti carezzavano il capo ed un corpicino sempre più fievole, sempre più docilmente confidente come nel solo ed ultimo tuo conforto, paterno e materno, in ogni mio bacio delle tue povere piume, nel mio vezzeggiarti la gola ed un capino oramai incapaci di vita e di cibo, due occhi, il cui languidio, disperavo che non era più lume vedente. E dire che ancora ieri, giù nel giardino, avevi gridato tanto disperatamente, quando per l'ennesima volta ti avevo raggiunto nel tuo saltellio per riporti in una gabbia all' aperto, talmente disperatamente che gli alberi, in uno stridio atroce, erano risuonati della lamentazione riflessa dei tuoi genitori e degli altri storni. Ma in breve ti eri venuto adattando anche a quel congegno terribile, come poi a tutto, all' una ed all'altra gabbia, al trasporto, dentro la scatola nera, da chi sapesse dirmi che cosa per te potessi ancora fare, mettermi in grado di alimentarti allo stecco, ed i tuoi artigli, ora così rigidi e secchi, non li hai più usati che nell' estremo sforzo di appigliarti alla vita, quando ai fili di quel nido volevi ad ogni costo restare appreso, prima che potessi capire che stavo distaccandotene solo perché di lì a poco defluissi dalla vita alla morte nelle mie mani, senza alcuno scrollare di capo, o che altro, rimanendo sempre di più immoto nella poca vita residua ch'è divenuta la tua stessa estinzione. Non eri dunque più niente? Che quei resti che senza più vedermi mi fissavano ancora? E di te che cosa singhiozzavo che mi aveva lasciato? Che in quell' istante se ne era andato via? Come Bibò, il mio primo uccellino, nel tuo cadaverino ti ho riposto sulle coltri del mio letto, mi sono steso a te accanto e ti ho pianto a dirotto, odorandoti nel tuo profumino selvatico mentre baciavo e ribaciavo le tue care piume, ti carezzavo il becco illividitosi, i bargigli non ancora formatisi della tua precocità, per poi aprirne la cavità che non aveva opposto alcuna resistenza al mio accanimento di alimentarti, anche quando la poltiglia di omogeneizzati e pastoncino ti era avanzata su quella piccola lingua, come tutto il tuo esserino oramai inane, anch' essa, al mio cospetto straziato di averti fatto soccombere. Dio, Dio, perché farlo nascere ad un destino così atroce, gridavo, perché dargli la vita per destinarlo ad uno scempio del genere? Che mostruosità, poco prima della tua fine, che mostruosità, che mi riassaliva nel pianto, quel tuo estremo grido di richiamo in cui tutto il tuo essere si rivoltava riverso... Vi aprivi il becco in un'articolazione, fioca e roca, che si perdeva rallentata nella sua vanità estrema, ma in cui risuonava anche in te, poco prima del niente, il grido estremo di ogni disperazione vivente:" Padre mio, padre mio, perché mi hai abbandonato?" E intanto che il tuo deperimento diventava la tua rapida agonia, in gabbia a che seguitavi a volgere lo sguardo su in alto? Anche quando improvvidamente ti ho lasciato libero sul ripiano del davanzale, hai persistito a volgerti alla luce che trapelava tra il folto dell' albero al quale ti ho posto di fronte, perché al tuo richiamo, sempre più debole, dalle sue fronde potessero accorrere i tuoi genitori. L' albero per te così vicino, così irraggiungibile... Quel capo poi dall' alto cui ti volgevi l' hai arrotato all' indietro, in un corpicino incapace oramai di ergersi, di equilibrarsi, poco prima che ti porgessi l' ambito di raccolta della mia mano dove spirarvi. Tra i miei sussurri e le mie carezze, per quello che potevano giungerti a conforto. Per la casa sentivi, poi? come vagavo sconvolto dal senso di colpa, accusandomi che la tua morte fosse già per me una liberazione dal fardello della tua fine penosa, che nella tua agonia si fosse ripetuta quella dei miei uccellini, in preda allo sconforto che anche tu, come loro, fossi precocemente morto perché eri finito tra le mie mani incapaci Riponevo intanto il tuo esserino ancora caldo ora qui, ora là, in questo e quel punto sulla tovaglia, che maculavi, - come già il rondone l'aveva sporcata dei suoi escrementi,- e ti risollevavo anche di lì, inorridito dello spuntone a nudo della tua clavicola, vi restava in tua vece una chiazza, scura, era del sangue che non ritrovavo all' esterno del tuo corpo, che doveva essere invece fluito dalla tua bocca, da cui ne trapelava ancora un poco. Che può importare al mondo, a chi altri, che venissi così spiegandomi la precipitazione della tua fine, il tuo piccolo caso di così poco conto anche per i veterinari ai quali ho chiesto soccorso,- tu, povero animale selvatico, il cui soccorso non era per loro remunerativo, Quel sangue attestava che la rottura interna di qualche tuo organo aveva trasformato la tua crisi in agonia, la rottura ch'è avvenuta quando ti ha fatto precipitare riverso all' interno della veranda, finalmente l'accorrere al tuo richiamo di un tuo genitore. Vedendoti già socchiudere gli occhi, non più lucidi e brillanti, non avere più slanci di voli, ti avevo liberato anche della gabbia per favorire l'evento, così come tu te n'eri liberato in mattinata, per tuo conto stupefacentemente. E' stato quando sono rientrato dalle spese domestiche per portare a fare esaminare il rondone ch'era nell' altra gabbia, che mi sono accorto che nel frattempo te n'eri uscito fuori dalla tua, e a più riprese, attraverso uno dei pertugi della mangiatoia, per poi arrestarti sullo stipite metallico della finestra della veranda, e lanciare il tuo richiamo ai tuoi genitori. Già avevi iniziato a richiamarli appena si è fatto giorno, e l'albero si era riempito di voci e di gridi, un genitore era accorso, ma aveva dovuto arrendersi alle sbarre della gabbia. Poi nel pomeriggio, della tua fine, dopo che ti ho lasciato così esposto all' arrivo di un tuo genitore, non ho voluto assistere, per favorire l'evento, quando dalla camera accanto ho intravisto l'animale lasciare le fronde e venire in tuo soccorso,- solo ho udito il rumore di un urto, di uno schianto, ho guardato dall' interno della cucina e non ho più visto alcunché, né te, né il tuo genitore. Che tu fossi caduto nel cortile di sotto? No, che non v'eri, - che ti avesse fantasticamente il tuo genitore ghermito e portato con sé? No, purtroppo, ti ritrovavo invece miseramente riverso sul pavimento della veranda, in una scatola dove eri precipitato dal tratto del davanzale in cui ti avevo poggiato e ch'era l'unico in cui improvvidamente io, il tuo soccorritore, potevo lasciarti esposto ai rischi di una caduta. Ti avessi messo solo un poco più in là, ove a ridosso del davanzale era accostato il mobiletto su cui avevo collocato la gabbia, saresti finito, nell' urto, al più sopra di esso. E in quella scatola stava abitualmente, ma allora non c'era, il nido che avevo raccolto dopo che un temporale l'aveva fatto cadere al suolo, e ch'era già stato edificato dai tuoi genitori per una precedente nidiata. In esso alfine ti riponevo, dopo che avevo propiziato il colpo di grazia della tua fine. Il tuo cadavere ha ora trovato il refrigerio del mio freezer, che è divenuto la cella mortuaria di ogni mio uccellino che ho che amato, dentro un sacchettino ed una vaschetta per loculo. Il tuo cadavere nel freezer, mentre la tua gabbia e la scatola con i buchi sono finite nel ripostiglio, come il residuo pastone per insettivori e le siringhe e ogni bicchiere di plastica in cui avevo impastato il tuo alimento. Ciò che di te si era compiuto per mano della mia disgraziata persona, in attesa di farsi queste mie scritture. Per un pò di conforto, ho preparato di nuovo la pastasciutta per le mie anitre e le folaghe al lago. Oltre l'argine già li vedo, i miei germani, che mi vengono incontro con gli occhi lucenti di contentezza, mentre si affoltano, si impediscono a vicenda, nell' affrettarsi verso il mais che distendo a loro nel tovagliolo di carta, al punto, che spazientito, l'anitroccolo ch'è il mio prediletto morde la coda al compagno che gli si frappone davanti. E incalzanti si pongono al seguito le folaghine, oltreché la famiglia dei quattro anitrini già cresciuti e della loro madre, quindi l'anitra matrona e gli undici suoi anitroccoli, che da oggi sono anch'essi da aggiungere a tavola, giacché non nutrono più timori che li trattengano in disparte; prima ancora, che sempre più ricorrenti, sopraggiungano dal largo i cigni attirati dalla ressa che si fa a riva. Così rieccomi chino di nuovo verso l'uno e l'altro dei miei germani, rieccomi che ora accorro a distribuire ai nuovi che sopraggiungono il mais residuo, ora a gettare agli anitroccoli che permangono in acqua del biscottino, attento a che gli uni e gli altri abbiano la loro parte, e sento quanto mi intenerisco, per l'anitra al largo con un solo anitroccolino[1][2]. Ma il tripudio di vita cui anch'io contribuisco nel parco incantevole, mi fa ancor più cocentemente piangere la tua sventurata sorte, mia anima di storno,- ad ogni uccellino, a ogni altro storno che vi vedo, gridando " Vola, vai, innalzati al cielo tu che lo puoi!". Abbandonarti al tuo naturale destino, mio caro, è a quanto mi sono vanamente opposto, invece consegnandoti così ad una morte ancora più atroce, sbattuto ancora più giù, che dal tuo albero, da chi dei tuoi genitori ti era venuto in soccorso, giù nella trappola di morte che ti avevo allestito con ogni sollecitudine. Durasti un giorno solo, ma è bastato a che io ti ami per sempre, mio piccolo, a che non veda altro paradiso, per me possibile, che di riunirmi allora alla tua luce di dolcezza, come di ogni altro uccellino ed umano che amai. O è bastato a che non veda altro conforto al niente, se è il niente che è, che di precipitarvi nel nulla in cui anche la tua povera e meravigliosa esistenza è insostenibilmente svanita, tutta la umiltà di incanto che tu fosti,- come lo è ogni uccellino, ogni qualsiasi altro animale vivente. Ma a chi parlo ancora, in te, se fosse così vero? Mio caro, mio caro piccolo storno, tra le lacrime tu ancora superstite che ancora ti piangono.
Vai al SommarioVersione rivista e corretta Mio piccolo caro Mio piccolo caro di storno, perché dovevo ieri imbattermi nella tua esistenza deperita, sulle soglie di casa, dopo ch'eri già caduto dall' albero, appena in tempo per salvarti dal gatto che ti era già sopra , nello stesso punto del selciato del cortile in cui mi avvedevo a sera del rondone che non riusciva a sollevarsi in volo, intanto che un altro gatto aspettava di ghermirlo all' estremità opposta di un'autovettura, se tu, nella cui salvezza facevo più affidamento perchè allo stecco potevo alimentarti, e deglutivi, e a lungo ti eri abbeverato ieri in gabbia, sei già morto così orribilmente e con tanta tua pena, per mano e inavvertenza di me stesso che ti avevo fortunosamente scampato e mi ero obbligato a soccorrerti. Mentre il rondoncino, per il quale trepidavo tanto, -in quanto che temevo che avesse un' ala rotta e non voleva saperne di alimentarsi in cattività, appigliato alle reti della gabbia nella sua integrità ribelle,- ha ripreso già stamane il volo dall' alto ed è dileguato felicemente via. In lacrime, alla tua morte, riordinavo la veranda che mi era stato così gravoso adattare al mio vano sforzo di recuperati alla vita, vivendo come un peso immane il dono del cielo così grande di poterti soccorrere, che i miei giorni estivi fossero distolti da ogni mio intento non più scolastico per trasformarsi nella sola tua assistenza assillante, quasi che un'altra fosse oramai la mia ragione di vita, che di soffrire e di scrivere per la meraviglia continua della vita animale. Giù nell' aiuola grande in cui tutta una mattina ieri avevi gridato, mi hanno detto i vicini di casa, in attesa vana che dai rami degli alberi i tuoi genitori ti venissero in aiuto, un gatto mi fronteggiava nell' ombra della verzura come un' ironia atroce, sbadigliandomi in volto l’ironia che ogni inutile precauzione per sottrarti alla sua, alla loro insidia in agguato, si sia tramutata nella trappola mortale in cui chi doveva soccorrerti ha precipitato la più penosa tua fine. Riponendo le piante di basilico sul punto stesso della tua disgrazia finale, tornavo già a ricostituire l'ordine che così brevemente e già con tanto mio affanno febbrile avevi sconvolto della mia quotidianità domestica, solo per un giorno e niente più, ma che mi è bastato per piangerti ed amarti come ho pianto ed amato i miei due uccellini con i quali per anni ho convissuto, talmente dolce è stata la tua remissione alle mie cure letali, il tuo abbandono alla morte, il tuo fluire via, nella scia di tenerezza che emanavi, nel trepidare ancora caldo tra le mie mani che ti carezzavano il capo e il corpo sempre più inane, sempre più docilmente disposto come al solo e ultimo loro conforto paterno e materno, a ogni mio bacio delle tue povere piume, al mio vezzeggiarti la gola e un capino incapaci di vita e di cibo, due occhi il cui brillio disperavo che non era più lume vedente. E dire che ancora ieri, giù nel giardino, avevi gridato tanto disperatamente quando per l'ennesima volta ti avevo raggiunto per riporti in una gabbia all' aperto, che gli alberi, in uno stridio atroce, erano risuonati della lamentazione riflessa dei tuoi genitori e consimili. In breve ti eri venuto adattando anche a quel congegno terribile, come a tutto, all' una e all'altra gabbia, al trasporto, dentro la scatola nera, da chi mi dicesse che cosa per te potessi ancora fare, come alimentarti allo stecco, e i tuoi artigli ora così rigidi e secchi, non li hai più usati che nell' estremo sforzo di appigliarti alla vita, in quei fili di quel nido cui volevi restare appreso, prima che potessi capire che stavo distaccandotene perché di li a poco defluissi dalla vita alla morte nelle mie mani, senza alcuno scrollare di capo, o che altro, rimanendo immoto in quella poca vita residua ch'è divenuta la tua stessa estinzione. Non eri più niente? Solo quei resti che mi fissavano ancora? E di te che cosa singhiozzavo che mi aveva lasciato? Che se ne era in quell' istante andato via? Ti ho riposto, come Bibò, nel tuo piccolo cadaverino sulle coltri del mio letto, mi sono steso a te accanto e ti ho pianto a dirotto, odorandoti nel tuo profumino selvatico mentre baciavo e ribaciavo le tue care piume, ti carezzavo il becco illividitosi, con i bargigli non ancora formatisi della tua precocità, per poi aprirne la cavità che non aveva opposto alcuna resistenza al mio accanimento di alimentarti, anche quando la poltiglia di omogeneizzati e pastoncino ti era avanzata su quella piccola lingua, come tutto il tuo esserino oramai inane anch' essa, al mio cospetto straziato di averti fatto soccombere. Dio, Dio, perchè farlo nascere a un destino così atroce, gridavo, perchè dargli la vita a uno scempio del genere? Che mostruosità, poco prima della tua fine, che mostruosità che mi riassaliva nel pianto, quel tuo estremo grido di richiamo in cui tutto il essere si rivoltava riverso, in cui aprivi il becco in un'articolazione fioca e roca che si perdeva rallentata nella sua vanità estrema, in cui risuonava anche in te, poco prima del niente?, il grido estremo di ogni disperazione vivente:" Padre mio, padre mio, perché mi hai abbandonato?" Prima che la tua fine diventasse la tua rapida agonia, in gabbia a che seguitavi a volgere lo sguardo su in alto? Anche quando improvvidamente ti ho posto libero sul ripiano del davanzale, hai persistito a volgerti alla luce tra il folto dell' albero al quale ti ho posto di fronte perché al tuo richiamo, sempre più debole, da esso potessero accorrere i tuoi genitori. L' albero così vicino, così irraggiungibile... Quel capo poi dall' alto l' hai arrotato all' indietro, in un corpicino incapace oramai di ergersi, di equilibrarsi, poco prima che ti porgessi l' ambito di raccolta della mia mano dove spirarvi,- , tra i miei sussurri e le mie carezze, per quello che potevano giungerti a conforto. Per la casa mi sentivi, poi,? come vagavo sconvolto dal pianto e dal senso di colpa, accusandomi che la tua morte fosse già una mia liberazione dal fardello della tua pena, dallo sconvolgimento delle agonie che vi avevo rivissuto dei miei altri uccellini, in preda allo identico sconforto che anche tu fossi finito tra le mie mani incapaci, ed intanto riponevo il tuo esserino ancora caldo di qui e di là, in questo e quel punto sulla tovaglia che maculavi, - come il rondone l' aveva già sporcata dei suoi escrementi,- e ti risollevavo anche di lì, inorridito dello spuntone a nudo della tua clavicola, vi restava in tua vece una chiazza, scura, sangue, all'odore, sangue che non ritrovavo all' esterno del tuo corpo, che doveva essere fluito dalla tua bocca, da cui ne trapelava ancora un poco. Che può importare al mondo, ad altri, che venissi così spiegandomi la precipitazione della tua fine, il tuo piccolo caso di così poco conto anche per i veterinari ai quali ho chiesto soccorso,- tu povero animale il cui soccorso non è per loro remunerativo,- quel sangue era la rottura interna di qualche tuo organo che aveva trasformato la tua crisi in agonia, quando ti ha fatto precipitare riverso all' interno della veranda, in un cartone, finalmente l'accorrere al tuo richiamo di un tuo genitore. Vedendoti già socchiudere così preoccupantemente gli occhi non più lucidi e brillanti, non avere più slanci di voli, ti avevo liberato anche della gabbia per favorire l'evento, così come tu te n' eri liberato in mattinata, per tuo conto, quando sono rientrato per portare a fare esaminare il rondone ch'era nell' altra gabbia,, e n’eri uscito fuori stupefacentemente, a più riprese, traverso uno dei pertugi della mangiatoia, per arrestarti sullo stipite metallico della finestra, e lanciare il tuo richiamo ai tuoi genitori. Già avevi iniziato a richiamarli appena all' alba si è fatto giorno, e l'albero si è riempito di voci e di gridi, il genitore è accorso ma ha dovuto arrendersi alle sbarre della gabbia. Poi nel pomeriggio, della tua fine, dopo che pertanto ti ho lasciato così esposto, non ho voluto assistere, per favorire l'evento, quando dalla camera accanto ho intravisto l'animale lasciare le fronde e venire in tuo soccorso,- solo ho udito il rumore di un urto, di uno schianto, ho guardato dall' interno della cucina e non ho più visto alcunché, né te, né il tuo genitore. Che tu fossi caduto nel cortile di sotto? No, che non v'eri, - che ti avesse fantasticamente il tuo genitore ghermito e portato con sé? No, purtroppo, così come che fosse accaduto mi avrebbe risollevato, ti ritrovavo invece miseramente al fondo della scatola in cui eri caduto all' interno del davanzale, dal suo tratto in cui ti avevo poggiato e ch'era l'unico che improvvidamente io, il tuo soccorritore, avevo lasciato esposto ai rischi di una caduta. Ti avessi messo solo un poco più in là, ove era a ridosso del davanzale il mobiletto su cui avevo collocato la gabbia, saresti finito, nell' urto, al più contro di esso. E in quella scatola stava abitualmente, ma allora non c'era, il nido che avevo raccolto dopo che un temporale l'aveva fatto cadere al suolo, già edificato dai tuoi genitori per una precedente nidiata, e in esso ora ti riponevo, dopo che avevo propiziato il colpo di grazia della tua fine. Il tuo cadavere ha ora trovato il refrigerio del mio freezer, divenuto la cella mortuaria di ogni mio uccellino che ho che amato, dentro un sacchettino e una vaschetta per loculo. Il tuo cadavere nel freezer, la tua gabbia e la tua scatola con i buchi riposte via, come il pastone per insettivori e le siringhe e ogni bicchiere di plastica in cui avevo impastato il tuo alimento,- ciò che di te si era compiuto per mano della mia disgraziata persona, in attesa di farsi queste mie scritture. Per un pò di conforto, ho preparato di nuovo la pastasciutta per le mie anitre e folaghe al lago, per me invece degli spaghetti al sugo, invece del panino al prosciutto che mi era immangiabile. Oltre l’argine già li vedo, i miei germani, eccoli che mi vengono incontro con gli occhi lucenti di contentezza, mentre si impediscono a vicenda, nell' affrettarsi verso il mais che distendo a loro nel tovagliolo di carta, al punto, che spazientito, il mio anitriccolo diletto morde la coda al compagno che gli si frappone davanti. E incalzanti le folaghine, immancabili di corsa, oltreché la famiglia dei quattro anitrini già cresciuti e della loro madre, dell'anitra matrona e degli undici suoi anitroccoli che da oggi sono anch'essi da aggiungere a tavola, giacché non nutrono più timori che li trattengano in disparte; prima ancora, che sempre più ricorrenti, sopraggiungano dal largo i cigni attirati dalla ressa che si fa a riva. Così rieccomi chino di nuovo verso l'uno e l'altro dei miei germani, rieccomi che ora accorro a distribuire ai nuovi che sopraggiungono il mais residuo, ora a gettare agli anitroccoli in acqua del biscottino, attento che gli uni e gli altri abbiano la loro parte, e sento quanto mi intenerisco, per l'anitra al largo con un solo anitroccolino[1][1]. Ma il tripudio di vita cui anch'io contribuisco in quel parco incantevole, mi fa ancor più cocentemente piangere la tua sventurata sorte, mia anima di storno,- a ogni uccellino, a ogni altro storno che vi vedo, gridando " Vola, vai, innalzati al cielo tu che lo puoi!". Abbandonarti al tuo destino, è a quanto mi sono vanamente opposto, mio caro, consegnandoti così a una morte ancora più atroce, sbattuto ancora più giù, che dal tuo albero, da chi dei tuoi genitori ti era venuto in soccorso, giù nella trappola di morte che ti avevo allestito con ogni sollecitudine. Durasti un giorno solo, ma è bastato a che ti ami per sempre, mio piccolo, a che non veda altro paradiso, per me possibile, che di riunirmi allora alla tua luce di dolcezza, come di ogni altro uccellino ed umano che amai. O è bastato perché non veda altro conforto al niente, se è il niente che è, che di precipitarvi nel nulla in cui anche la tua povera e meravigliosa esistenza è insostenibilmente svanita, tutta la umiltà di incanto che tu fosti,- come lo è ogni uccellino, ogni altro animale vivente. Ma a chi parlo ancora, in te, se fosse così vero? Mio caro, mio caro piccolo storno, tra le lacrime di te che ancora piango. |
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