Di ritorno in Georgia

Varzia, 18 agosto 2001.

 

 

 Stanotte, dai conducenti dell’autobus da Erevan per Batumi, carico di villeggianti armeni che vi andavano a fare le vacanze sul Mare Nero,  sono stato scaricato nel buio più nero al bivio di Akaltshike,  benché il centro della cittadina distasse solo un chilometro e mezzo, ed  il biglietto mi fosse stato fatto pagare fino a Batumi.

Non vedevo neanche la  punta dei miei piedi, tra i cani che chissà dove ululavano intorno, e le vetture che incrociavo e mi abbagliavano paralizzandomi, senza che  riuscissi a  capire quanto fossi al centro o al margine del percorso stradale, dove finisse la strada e cominciasse il bordo a iniziare dal quale finivo ero fuori pericolo.

E le vetture che si fermavano poco distanti, e che spegnevano i fari,… nel silenzio generale in cui avvertivo solo fruscii…

Finalmente una casa illuminata,  avvicinandomi alla cui quiete silenziosa e radiante, coi piedi mi sono ritrovato che stavo calpestando una viottola periferica tra degli  alberelli di pino,  sotto uno dei quali , risollevato, mi sono disteso con lo zaino  in attesa del chiarore dell’ alba.

In Akalthiske, mentre vagolavo alla stazione degli autobus in attesa  del minibus  per Varzia, con ancora lo zaino appresso, che solo in serata scaricherò nell’ hotel dove alloggerò,  un poliziotto ha preteso di intimidirmi, sostenendo che non ero in regola.

Non aspettava altro che gli mettessi le mani d’addosso, come aggravante a carico per estorcermi ancor più del nero.

Per  allestire una messinscena che mi facesse crollare, mi ha sequestrato il passaporto e mi ha fattosalire a malo modo  con i bagagli su  una vettura della polizia affidandomi a due suoi colleghi.

Ma costoro,   più che tentare di  spillami del denaro con un’insistenza allusiva, altro  non potevano “Ar mesmis” , “ Non capisco”, non capivo davvero che volessero da me…

“no, non era una cosa grave” ,  iniziavano a dirmi nel mollare, attenendosi forse contraggenio alla bravata del loro superiore.

“ Non era una  cosa grave” ripetevano con infastidita noia, come se recitassero una parte da cui non avevano potuto esimersi..

Finché davanti alla stazione  mi hanno fatto scendere e rilasciato senza neanche i saluti.

Ma tutto quant’ è successo è irrilevante,  rispetto a quanto mi dispiace di avere lasciato l’Armenia e di non avere visto il lago di Sevan, un  rammarico cocente che mi pervade  anche qui, nella quiete di Varzia, dove non si sente che lo scorrere delle acque del fiume in fondo alla gravina, sotto i dirupi in cui si arroccarono militari e monaci,e civili, entro spelonche e dimore  vertiginosamente incavate.

 

 

 

 

 

Per gli scalini scolpiti nella roccia si può risalire dall’ uno all’ altro dei tredici livelli di insediamento, l’accesso agli abituri riconduce per lo più ad una sala contornata da un bancale, lungo le cui pareti laterali delle nicchie costituivano le teche degli oggetti d’uso sacri o profani,  vi erano stati incavati  dei cubicoli  generalmente inarcati, forse giacigli.

 

 

 

Invece la parte di fondo si internava sulla sinistra in un’ inarcatura rialzata, più profonda, che dava  accesso ad una stanza oscura,  dove delle fosse circolari erano la rimanenza superstite degli alveoli dei vasi che vi stavano immagazzinati.

Invece canalette e vacuità circolari, nella sala d’accesso, erano i residui delle condutture e delle conche dell’acqua  che vi si usava.


Lo sforzo di immaginare, senza chiaramente comprendere,  quale fosse la destinazione  degli abituri,  ripercorrendoli da  un livello all’ altro , si è tramutato nell’ avventura della ricerca dell’ acqua in f ondo all’ oscurità della grotta accanto al santuario ,

lo stupore degli strapiombi a picco su cui eremi e grotte si inalveolarono dal mondo, senza poter evitare che il mondo in armi delle milizie persiane vi risalisse devastante.

Avrei atteso invano la marshrutka delle venti, se quando sono sceso all' ingresso a valle, avessi così voluto rientrare in Akhaltsikhe.

Tra il verde in prossimità del ruscello, un giovane bavarese stava impiantando la sua tenda.

Addossata al muretto adiacente stava riposta la sua bicicletta.

Con questa, "slowly,, ha tenuto a ribadirmi, aveva già raggiunto Kazbegi.

Ma non era uno "sportman",mi ha assicurato.

Altro restava il mio destino:il guardiano all' ingresso, che m aveva custodito lo zaino, mi ha ottenuto un passaggio sino ad Akhaltshikhe, sulla vettura di un ricco georgiano con la sua compagna.

Lungo il fondovalle meraviglioso che filava via rapidamente, una sola loro breve sosta presso il castello di Khertvisi, giusto il tempo di scattare delle foto e di farsi da me fotografare sul suo sfondo, in tutta la velocità coatta e la molteplicità di cose da fare allo stesso tempo, che la ricchezza di cui l'uomo rendeva compartecipe la donna consentiva e prescriveva a loro- fumare, ascoltare audiocasette, scattare foto, fermarsi a un chiosco o l'altro lungo la strada, ripartirne via di corsa con bracciate di bibite, pagarmi anche il taxi fino all' hotel, per non addentrarsi nella piccola Akhaltsikhe ed essere già in strada verso Tbilisi. 

 

 

Akhaltsikhe, 20 agosto

 

20 agosto

 

A mezzogiorno, quand'ero ancora nel villaggio di Ghreli, ero sempre intenzionato, per le quattro del pomeriggio, a prendere l'autobus per la frontiera con la Turchia di cui mi si era detto.

A parermi incredibile era piuttosto il mio proposito di raggiungere il monastero di Sapara, distante ancora una decina di chilometri.

Già mi ero perso in Akhaltsikhe, lungo il viale che ne fuoriesce, e solo ostinandomi a chiedere avevo trovato il percorso accidentato per il monastero, giacché mentr'io seguitavo a immaginarlo come un largo percorso regolare, per sterrato che potessi supporlo in ampi tratti.

Invece si profilavano dodici chilometri all' andata, dodici  al ritorno, lungo un cammino il cui avvio iniziale, uno strappo tra ciotoli e rocce, rendeva aleatorio il transito di marshrutke o di autobus, che potessero accelerarmi il percorso.

Infatti per quel camminamento erano avviati solo uomini a piedi, eccettuata qualche vettura che si arrestava fra le case del villaggio.

Restava solo da determinare quale muretto di sosta scegliere, tra le case di Ghreli, per riprendervi fiato e da esso iniziare il ritorno.

Eppure le persone alle quali ciononostante seguitavo a chiedere del monastero, non accoglievano quale un'assurdità la mia richiesta di come giungervi a piedi, seguitavano a indicarmi come potevo così proseguire, anzi l'anziano di cui arrestavo la macchina anche perché non investisse un'anitra, mi  consigliava come potevo accorciarla, seguitando per il pendio finché sulla sua sommità  avrei ritrovato il regolare cammino.

E per il mio sostentamento nella fatica del percorso, mi dava dei cetrioli di cui avevo un carico in macchina, due freschi, da un secchio, due sotto aceto che estraeva da un involucro a parte.

Con la borraccia riempita dell' acqua di quel villaggio, comunque mi avviavo per quell' erta tra i prati e i pascoli, ero ancora in tempo, no? per desistere e rientrare in Akhaltsikhe che si profilava al fondo della vallata, chiedendomi quale fosse la Sua illuminazione giusta, nella mia ostinazione a non voler rinunciare.

Più in alto, ov'era la mia nuova meta provvisoria, ed il pendio assumeva la configurazione del tracciato di un regolare tragitto,  vedevo risalire un piccolo autobus, discendere un' automobile lungo la strada che avevo lasciato per la scorciatoia,  si faceva dunque possibile rientrare in Akhaltsikhe per le quattro del pomeriggio con un passaggio, quand'anche avessi seguitato a piedi fino a Sapara.

Allorché ho infine raggiunto la strada, anche il minibus in risalita era già transitato, ma con un animo nuovo, per il suo fondo sterrato ch'era divenuto  meno accidentato, raggiungevo e scollinavo la sommità dell' altura, un passo che immetteva in una vallata magnifica, di terrazzati pascoli e coltivi tra i boschi sovrastanti, mentre si allargava intorno la vastità delle dorsali e delle catene montuose verdeggianti dello Javakheti.

Cinque, erano i chilometri che mancavano ancora, mi diceva un pastore all' ombra di un albero presso la strada, il cui seguito non appariva più accidentato, lungo uno stesso livello di altitudine dei pendii, che il pastore mi additava nel suo rientrare e riemergere di fronte lungo i pendii.

Sul suo tracciato seguitavo con passo sciolto e veloce, quanto l'animo si era fatto confidente e persuaso della meta  così definitivamente assunta, con il tracciato lasciando il divagare tra i pascoli, per addentrarmi nel ristoro di pinete e di boschi, finché la svolta dei tornanti si faceva quella risolutiva, ed alla  vista apparivano infine un castello diruto, della famiglia feudale degli Jakeli, secondo la guida, il monastero incantevole sottostante, nelle sue cuspidi ocra e nelle fiancate delle chiese, come emergevano dal folto più fitto di un incantevole bosco, che si schiariva e si incupiva di verde variegato dal vento.

Un bellissimo ragazzo, Vladimir, l'aiutante dei monaci che vi vivevano, mi ha accolto e mi ha  accompagnato alla mensa quando ho valicato le soglie, mi ha aperto la chiesa più grande del complesso monastico.

Era dedicato a San Saba, il santo di cui aveva assunto il nome e il culto Sargis Jakeli, in onore del quale Beka, il figlio di Sargis, l'aveva fatta edificare.

 

Dei suoi affreschi, all' interno, quello della Trasfigurazione mi è apparso il più bello, le loro figurazioni ne animavano la severità interiore quanto la nudità austera dei muri esterni era avvivata dall' ornamentazione profusa ,sino al turgore, nei bocci e nelle croci gremite di lamine di pietre foliari,  tra i viluppi di intrecci e le dentellature e le lineature in cui erano iscritte.

Quando mi sono avviato al ritorno già si addensava la pioggia che mi ha raggiunto sotto la vana protezione di un alberello, dopo che già avevo superato la pineta. Ma il sole riapparso, il vento che sulla sommità del passo soffiava più intenso, rapidamente mi hanno prosciugato, e non ero più umido quando ho lasciato la scorciatoia per un sentiero fiancheggiato da degli alberelli, che mi addentrava tra i prati falciati e i covoni ammucchiati di una tela di van Gogh.

Non avrei ripercorso a piedi l'intero tragitto, prima di Ghremi lungo la strada mi ha dato un passaggio un ingegnere di Tbilisi che discendeva in auto con le sue figliolette, offrendomi anche il ristoro  della sua casa di campagna oltre il villaggio.

Era la dimora originaria di sua moglie, che si è affacciata a salutarmi insieme con la terza delle loro figlie.

Intorno al desco, su cui mi è stato servito del badrijani squisito,  con un'insalata di cetrioli e pomodori, del formaggio e del buon vino della vigna accanto, si sono presto affollati le donne e un vecchio del vicinato, dei cani e dei cagnolini.

E' sopraggiunta di lì a poco l'insegnante del villaggio, che nell'inglese che parlava meravigliosamente mi ha chiesto del mio viaggio, dell'Italia, mi ha detto della Georgia.

La sua meravigliosa natura non significava niente nelle sue parole, amare della miseria opprimente che era la sola realtà effettiva del suo paese, come lo era in Armenia per le donne con le quali avevo parlato.

35-37 dollari erano il suo stipendio, ancora meno dei 50 dollari che erano l' emolumento mensile dei militari, una cifra miserrima, anche se pur sempre meno esigua dei 10, 20 dollari al più, cui assommava la retribuzione media di un lavoratore in Armenia.

In classe, non disponeva che del gesso, mentre i suoi allievi richiedevano computer.

Lo sfruttamento in Georgia del lavoro minorile? E chi disponeva delle officine o delle botteghe per poterne abusare?

In tale penuria di vita, era davvero difficile fare dell' insegnamento la cura principale della propria esistenza.

Non un apprezzamento per Gorbaciov o Shevarnadze, nel cui operato di Presidente si riconosceva invece l'ingegnere.

Akhaltsikhe era livida dell' umidore della pioggia recente quando vi sono uscito per strada, dall' hotel al quale l'ingegnere mi aveva accompagnato in macchina.

Nell' oscurità delle sue strade stazionavano infreddoliti ragazzi e ragazze, che si erano raccolti in gruppi alla confluenza delle due strade principali, le sole luci accese  quelle dei ristoranti, scarsi di clienti.

Nel caffè in cui sono andato a cenare, un gruppo di donne ed una famiglia stavano terminando di cenare in due separés, incomunicanti quasi che vi consumassero chissà che vizioso rito appartato.

L'immagine di due donne, una giovane, una più anziana, che in tutta la loro pinguedine si sono messe a danzare insieme  al suono di una musica nazionale, è l'ultima che mi sarebbe rimasta impressa della Georgia. 

 

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