Dopo il viaggio in Allahabad |
marzo aprile 2013 |
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Ma dopo le piatte distese oltre i filari di pioppi dei campi dell’ Haryana pulverulenti, l’arrivo nella Chandigarh reale è stata la disillusione istantanea che realisticamente non potevo che attendermi, Per anonimi quartieri moderni l’autobus è pervenuto nella più anonima e grigia stazione di autobus, aperta a una piazza centrale di un grigiore ancora più squallido. E come ho trovato e lasciato la stanza di albergo, attardato dalla impossibilità di sostare nel primo hotel perché non disponevo del permesso di residenza in Chhattarpur, è subentrata l’anonimità dei viali a quella dei caseggiati popolari e di utilità pubblica dei settori centrali, verdi di una moltitudine di alberi estenuati dalla calura estiva e senza vigoria di fronde, lungo incerti e sterrati camminamenti pedonali, rispetto ai quali predominavano le auto in ogni corsia. Ma non solo le larghe arterie stradali a percorrenza veloce erano riservate al dominio pressocché assoluto degli autoveicoli, e lo erano anche le corsie a scorrimento più lento, mentre le piazze destinate al traffico pedonale ne erano degli esclusivi parcheggi, in cui spadroneggiavano i carapaci delle loro sagome allineate, mentre nei parchi i viandanti erano sparute presenze fantasma. Delle forme di vita di strada, le uniche attestazioni erano due venditrici appiedate di frutta, mentre per dissetarmi, in assenza di qualsiasi chiosco o rivendita di bibite analcoliche, ho dovuto rifarmi a uno degli spacci frequenti di vino e birra. Uscendo avevo mirato solo a raggiungere il centro capitolino, credendo che per quanto a quell'ora tarda ne fossero inaccessibili e inavvicinabili gli edifici pubblici, con il flusso del traffico potessi raggiungerne gli spiazzi resi più magnificenti dalle illuminazioni notturne. Ma giunto a qualche settore di distanza, senza ravvisarne ancora alcuna parvenza, non mi restava che avviarmi al rientro tra le repliche seriali dello stesso tipo di edifici pubblici rinfrescati di bianco, a loro volta delle repliche seriali di filari di balconi senza sporto rispetto ai loro supporti. All’uscita dell’hotel, l'indomani avrei visto appiedati i chai walla del settore 22, i venditori di tè, prima di trovarmi più a mio agio nel traversare un settore agiato, per raggiungere per i suoi viali il teatro Tagore. Un esercizio di rigore, più che di fantasia, il parallelepipedo in muratura tra due cubi di vetro che ne costituiva il tutto, Era odoroso anche nello spiazzo esterno delle travature e dell’acustica in legno, ne era il sentore dell’ascetica degli allestimenti, l’ambito in cui la cultura popolare indiana sembra trovare in Chandigarh il solo diritto ad una sua rappresentazione scenica, Poi, nella pioggia che si intensificava nel tardo mattino, nemmeno l’iter procedurale che si complicava per ottenere il diritto di accesso al centro capitolino, poteva lasciarmi presagire ciò che esso mi avrebbe riservato: già l’approssimarvisi aveva la cupezza di un incubo, il verde incolto di radure ed alture lo appartava al di fuori della città abitata, destinandolo al solo accesso militarizzato della burocrazia amministrativa, in un sogno di città in cui con la pianificazione urbanistica cadeva ogni effettiva ragione d’essere di una partecipazione politica. Eppure, oltre il mostruosario del Secretariat , che splendidi edifici aveva vagheggiato la fantasia geometrica di Le Corbusier, quali armoniose ricomposizioni incruente di ogni vertenza politica e giudiziaria, nel parlamento e nell’alta corte di giustizia, in virtù del semplice decorrervi civico dei cicli naturali dell’essere. Si arriva a fronteggiare il Parlamento dopo averne costeggiato l’azzurro delle vasche d'angolo, che frescheggia e riflette la sua attività rinnovatrice, mentre il profilo corneo della tettoia si allunga in un’inflessione che è come una ricezione della spiritualità celestiale, la sovrastano una piramide inclinata, una sorta di sifone svasato che pare un’ ameba, a significare tutto ciò che di straniato e sghembo si ricompone in ogni ordine. E le vacuità dei supporti di cemento costituite di circolarità irregolari, esaltano come l’ordine geometrico comprenda intrinsecamente anche l.‘organico. Nel suo manifestarsi alla vista in cromatismi vistosi, bellissimo il pannello che nei cicli della vita include la sede istituzionale del Parlamento. Ma il magnifico edificio primeggiava in un immenso isolamento deserto , senza impronta alcuna di alcuna vestigia umana partecipativa, conteso dal cemento armato del grande spiazzo di fronte, e dall’erba matta che vi cresceva incolta e lo attorniava con grami alberi. Una recinzione che divideva l’ampio spiazzo, troncava ogni flusso vicendevole con il palazzo di giustizia, rinviando al presidio militare della riduzione a burocrazia della democrazia. Ridisceso l’avvallamento e raggiunta e percorsa, a sinistra, la china in salito del manto stradale divisorio, mi ritrovavo presso la scultura celeberrima del’open hand, della mano aperta, pronta a ricevere e dare, in virtù di una risorsa civile di Chandigarh, così vitale, che sembrava non aver bisogno di alcun concorso politico od istituzionale nel suo auto asserirsi. La frequentazione diurna delle aule giudiziarie spiegava come il verde circostante l’Alta corte fosse stato aggraziato a giardino di rose, tra getti d’acqua, e come con il traffico umano di vakil, avvocati e loro clienti, vi circolasse quello veicolare. L’Alta corte era un’altra invenzione fantastica del genio architettonico di Le Corbusier, avvivata da un reticolo di parallepidedi che hanno la funzione di frangisole, da pilastri nei più brillanti colori primari, sullo sfondo di rampe di ascesa così innovativamente profilate di vuoti. L’esercizio del rigore giudiziario vi era convertito nell’applicazione delle regole di un gioco, come quelli dell’ infanzia, che attraverso le sentenze che emana ci riconsegna alla innocenza di una ritrovata armonia con l’ordine naturale delle cose, Del rigore costruttivo applicativo della città in cui tornavo, senza sublimazione ascetica o invenzione fantastica, nel suo destinare il pregio di abitazioni e negozi e ristoranti solo ai più facoltosi, era una sorta di compensazione complementare l’esuberanza fantastica del rock park che Nek Chand, ispettore e supervisore di strade profugo dal Pakistan, dopo la Partizione, aveva prodigiosamente popolato delle sue innumerevoli creature scultoree, ottenute con il riuso clandestino dei più vari rottami della città in formazione, cocci in ceramica di vasellame, di prese della corrente, ferramenta di biciclette, senza che tuttavia lo strabiliante assumesse ai miei occhi una valenza più che artigianale, pur nel suo evocare le cromie luminescenti degli edifici di Gaudi. Il romantico Gandhi Bavan, di Jeanneret, nell’arcuarsi della tensione delle sue linee spezzate, per frangersi ancora, in una ricomposizione ciclica ternario che prende orpo nel corso della pradakshina deambulatoria, materializzantesi nel calore della sua bellezza granulare parietale, sotto il sole ritornato a splendere e ad avvivare i parchi e i giardini del campus universitario in cui il memoriale è situato, è stata la visione del bello in cui si era commutata in farfalla la crisalide delle parvenze da incubo di Chandigarh, prima che il Satabdi-express mi consentisse il sollievo di distaccarmene, per ritrovarmi gioioso nella vitalità di Delhi.
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Dopo il viaggio in Allahabad
E dove
mai l’avevo acquistato, o come mai ottenuto, quell'oggetto di fatale
perdizione idolatrica, meritevole solo di ogni più devoto
accanimento di resezione dell’ impuro.
“ Loro non
taglieranno un bel nulla, quando Chandu si recherà alle loro scuole, ho
replicato invece a Kailash, che riteneva ovvio che dovrei sottostare alla
richiesta della sorella di non comparire con simboli hindu ad una Messa.
“ Non è affatto
cristiana tale richiesta - gli ho soggiunto, il suo solo concepimento mi
risuonava quanto mai empio e blasfemo, non meno del rifiuto dell’ex vescovo
di Varanasi di benedire i bambini della scuola di Valentino Giacomin perché
erano Hindu.
Quasi che
Cristo, anziché per la totale salvazione del genere umano, si fosse incarnato
per la sua dannazione generale, come accadrebbe, fatalmente, se per salvarsi
invece che il vivere bene, fosse indispensabile la credenza nel Gesù storico
e nella sua Chiesa apostolica, ed il Cristo non potesse essere ritrovato ed
attinto dentro ogni orizzonte di fede e di vita.
Essere
indiani, per i padri reverendi della Chiesa di Khajuraho,
piuttosto che il convertirsi alle ragioni di fede di hindu, jain, siks, o
muslims, sembra che significhi il farsi compartecipe della idolatria per il cricket dei
propri connazionali, o che per le sorelle sia il condividere l'adorazione infantile per i mortaretti o quella alimentare del dahl,
inzuppandovi gaudiosamente le mani, non che per ogni ordine ecclesiastico riconoscersi
nei sacri proventi e privilegi secolari che assicurano loro gli ordinamenti
civili indiani.
Ne sono
stati per me un esempio trascorso, e recente, i collegi cattolici estesi
nella loro imponenza per interi isolati stradali, che primeggiano in città in
cui i cristiani sono poco più di qualche sparuta famiglia, quali Mathura e
Allahabad, dove il Saint Joseph College non era certo l’unico istituto
religioso, che si rifacesse alla diocesi di Lucknow, ad essermisi imposto di
nuovo e lungamente alla vista, mentre facevo ritorno alla stazione centrale
dalle Civiles Lines, dove mi ero perso per l’intero pomeriggio nella sola
sezione statuaria del grande museo.
Dunque
era vero che vi si potevano ritrovare magnifici frammenti dello stupa di
Bharuth, quali quello degli acrobati sovrapposti in elevazione, od il brano
di una jataka in cui comparivano capanne dell’epoca Shunga, non solo, oltre
ad innumerevoli splendide opere quali l’Ekamukka shivalinga rinvenuto a Khoh,
di epoca Gupta, o il più tardo Narashima di Unchdih, che dell’arte gupta
ancora rammemorava il naturalismo, a splendide rappresentazioni del Buddha
risalenti alla scuola di Sarnath, o di Shiva e Parvati, nei loro celestiali
sponsali, che sono state asportate da Khajuraho, a copiosi reperti di varia origine
religiosa provenienti da Kaushambi, vi figuravano dei pannelli ornamentali e
le gavaksha degli oculi solari, contornanti divinità quali Mahisha
Suramardini, del tempio che finora ho mancato di andare a vedere di Bhumara,
sicchè, in un itinerario nell’India Buddista ed Hindu prima di Khajuraho,
raggiungendo Buhmara da Nachna Kuthara, per poi dirigersi a Maihar, e lungo
la strada per Rewa, ai luoghi ed ai siti del museo di Ramvan e della stupa di
Bharuth, seguitando sulla via per Allahabad che conduce agli stupa di Dor
Khotar, prima di pervenire alle sole fondamenta di quelli che furono eretti
dallo stesso Ashoka in Kausambi, dove è dato di visitare i resti dei
monasteri in cui visse Buddha medesimo e compose l' Itivuttaka, l’approdo al
museo di Allahabad avrebbe significato il ritrovamento figurativo incantevole
delle superstiti vestigia figurative di quei templi e stupa che si siano già
visitati, od evocati nel sito medesimo in cui sorsero.
Un’esperienza
estasiante, che smorzava l’amarezza sconsolata e rabbiosa alla Sangam, del
giorno avanti, dove alla confluenza dei sacri fiumi non avevo ritrovato
pressoché più nulla della Maha Kumbh mela. Soltanto le infinitudini
dei pali della luce elettrica vi restavano erette, in un silenzio percorso
dal vento che non era infranto che dal rumore dei camion che asportavano le
travature dei ponti galleggianti ( che erano ) sospesi sulle acque poco più che
reflue del Gange, in cui della festa hindu non sopravvivevano che poche
ghirlande di calendule depositate a riva dalla corrente, che i piedistalli di
alcune pedane di vasi sanitari.
Da altre
maestranze anche le tubature fognarie venivano rimosse con le scavatrici, che
aprivano voragini nel letto in secca del fiume, mentre le passerelle di
ferro dei vari percorsi di raccordo, sul greto sabbioso, seguitavano ad
essere schiodate e rimosse ad una ad una.
Ad ondate
salienti risaliva in me il furore di avere mancato l’appuntamento con l’evento,
fallendolo una prima volta quando ho tentato di approdarvi in fuga da
Khajuraho, talmente la mente vi era stravolta per avere subito i clamori
notturni delle feste nuziali e la lettura avvenuta a tutto volume del
Ramayana, in una casa accanto, al punto che incapace di ritrovarmi nei carnai hindu della
Maha Khumb Mela, mi sono arenato in Chitrakoot, prima di
Allahabad, e che oltre la sua stazione ferroviaria, vessata dalla pioggia,
mi sono rifugiato nell’approdo illusoriamente consolatorio, in Sarnath, delle parole
misticamente disincantate con cui Valentino si ritraeva da ogni
coinvolgimento spirituale nella Maha Kumbh mela “ E’ solo superstizione. Prendono
tutto alla lettera, ed invece di purificare la mente con le acque dello
spirito, vanno a immergere il corpo nel Gange, che è più merda che acqua, per
poi tornare alle loro case santificati e più truffatori di prima…”
Ed io
stesso, come se tale demistificazione potesse distogliermi dalla mia
frustrazione incombente, avevo addotto un rinforzo testuale a tale sua
deprecazione del Maha kumbh mela, inoltrandogli le pagine seguenti del Sarvatirthamahatmya
del Garuda Purana: "Ma il santuario più alto è la
meditazione sul Brahman; il controllo dei sensi è un altro
luogo santo; la disciplina interiore è un supremo tirtha e la purezza
del cuore un lago santo. Colui che compie un’abluzione in un tirtha spirituale,
nello stagno della conoscenza, nell'acqua della meditazione profonda, che
distrugge l'impurità derivante da attrazione e repulsione, costui si avvia
alla meta suprema.”. La frustrazione irreparabile della mia
aspirazione a dare coronamento, nelle mie ecloghe, alla trasposizione immaginativo-letteraria di un anno di vita indiana con la
espressione poetica della mia esperienza del massimo evento hindu, ben altro combustibile avrebbe trovato
alla sua rabbia furente, nell'uno o nell’altro dei passi, a mia libera
scelta, della Gangamahatmya del Naradapurana: " Chi uccide
un brahman, il proprio guru o una vacca, il ladro e
colui che viola il talamo del guru, tutti costoro sono purificati
dall’acqua della Ganga: non c'è incertezza su questo”.
Mi avrebbe ulteriormente esasperato l'animo che l'indisponibilità di posti
per il giorno seguente, mi fosse di impedimento a restare in Allahabad, per recarmi a Kaushambi,
e visitare in Allahabad di nuovo le tombe del Khusro bagh. Le ho
riviste solo nel corso di un accesso
furtivo, a sera inoltrata, alcune ore prima della partenza, tra le presenze
fantasmatiche degli omosessuali che vi cercavano incontri, ombre umane tra
quelle dimore ultraterrene, che a distanza di anni,
rispetto a quando le visitai in concomitanza con la Ardh Kumbh Mela,
mi
ricomparivano solo come
magnificenti residenze celesti(ali) di principi e regine madri, senza
trascendere o trasfigurarsi nella sublimità del trono di gloria dell'Altissimo, cui si eleva imperituro il
Taj Mahal
“The train one,
one, one, ek, ek, ek, is" normally late" 2, 3, ..11 hours,” avrebbe
poi risuonato di continuo l'altoparlante, nella Junction railway's station di
Allahabad. E' l'India, bellezza, intanto mi ripetevo per adattarmi al
ritardo, a causa del quale mi sarei ritrovato in Khajuraho alle due del pomeriggio
anziché alle sette del mattino Marzo 2013
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