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CHANDERI
Chanderi la si raggiunge per lo più
da Lalitpur, dove l’Uttar Pradesh si insinua più in profondità nel Madhya
Pradesh, a sud di Jhansi, lungo la direttrice ferroviaria che da Jhansi
giunge a Bhopal, doppiata dall’arteria stradale che reca a Sagar. Ma
una dolente premessa si rende qui necessaria, a onore del vero,
prima che chi intenda visitarla si risolva a giungervi: i 37 km che vi
recano da Lalitpur, si riveleranno il tormento incessante, per i tre quarti
del percorso, che è inevitabile patire per accederne alle
bellezze recondite, delle quali a loro volta è bene premettere, perchè si abbia
consapevolezza di quel che si perde sottraendosi al
subbuglio, che sono quanto di più bello riserva il lascito in
India dell’arte islamica afgana.
Tutto un sobbalzo, uno sconquasso di
organi interni, per schivare l’uno o l’altro cratere stradale senza potere
evitare il successivo, che solo la stabilizzazione concessa dal viaggio a
pieno carico degli autobus di linea macilenti, può lenire nelle trasmisssioni
delle vibrazioni ossee. Ma si riveleranno le asperità ch’è valso la
pena affrontare fino all’ultimo scombuiamento, che avrà termine non
appena si affianchi e si superi la Rajghat dam sul fiume Betwa, e inizi
l’erta che fa ascendere sull’altopiano del Malwa, addentrandoci di
lì a poco nell’abitato di Chanderi adagiato tra i colli.
Tale arrivo in salita, lasciandoci
alle spalle per l’altura del Malwa, ed il rientro nel Madhya Pradesh, le
lande del Bundelkand che sono situate nell’Uttar Pradesh, ci fa
già intendere quanto fosse militarmente strategica la postazione di
confine di Chanderi, e si situasse imprescindibilmente lungo le vie del
commercio tra l’India del Nord ed i porti occidentali ed il Deccan,
destinandola all’affluenza della ricchezza e alla conquista predatrice.
A credere al visir Abul Fazl, a quel
che riferisce di Chanderi , nell’Ain-i-Akbari, “La costituzione di
Akbar”,- volume terzo e conclusivo del monumentale libro celebrativo
dell’ imperatore moghul Akbar, l’Akbar Nama, alla fine del Cinquecento
era Chanderi una mirabile città fiorente con 14.000 case di pietra, 61
palazzi, 384 bazar, 1.200 moschee, 1.200 pozzi con gradini...Meno
immaginifica, sotto tali parvenze di essere puntualmente precisa, è la
rappresentazione che ne preservò all’inizio del medesimo secolo l’avolo
capostipite di Akbar, ossia Babur, imperatore, nel libro delle
sue memorie, il Baburnama, alle pagine che scrisse dopo averla espugnata il 2
settembre del 1527, di Venerdì, sottraendola a Medina Rai, il ministro
secessionista di Mahmud II del Malwa, a cui il potere sulla città era stato
trasmesso solo sette anni prima dal re del Mewar Rana Sanga di Chittorghar,
che l’aveva a sua volta strettta d’assedio stremando le resistenze
di Mahmud II.
“ E’ la cittadella
di Chanderi su di una collina e all’interno ha un bacino d’acqua intagliato
nella roccia... Tutte le case in Chanderi, siano esse alte o basse,
sono costruite in pietra, quelle dei ceti più alti essendo laboriosamente
scolpite; quelle delle classi umili sono anch’esse di pietra ma senza
essere scolpite....”
Ma ancor più affascinante ed
affascinata è l’immagine di Chanderi che due secoli dopo, nel 1859, si offrì
alla vista dell’ufficiale armato Lt Reginald Craufuird Sterndale, così come
ebbe a scriverne, accedendovi dalla Kati Ghati, la porta ch’è intagliata
nella montagna, a sud di Chanderi, ed ora confinata al traffico locale, ma
che dall’epoca della sua costruzione, nel 1495, venne destinata ai
viaggiatori che pervenivano in Chanderi dal Malwa o dal Bundelkhand: “ Transitando
attraverso la Khati Ghati, Chanderi sorgeva alla vista come un dipinto dal
quale sia stato improvvisamente scostato un telo. Le montagne formavano
una lunga valle a ferro di cavallo interamente chiusa su tre lati. Sotto di
noi giacevano la città di magnifica pietra scura, alte case, pinnacoli di
templi scintillanti d’oro, moschee, cupole, minareti e portali, palazzi
estivi...tutti cinti da masse di fogliame, densi boschetti
di tamarindo, shureefa, more, frammischiati con luccicanti specchi
d’acqua sui quali migliaia di volatili si svagavno.Tutto intorno si snodava
un’ alta muraglia in pietra, bastionata, dotata di torri con feritoie e di
imponenti porte, e a sinistra, a coronamento del più alto sperone
roccioso delle montagne, e dominando l’intera valle, e l’intera città,
incombevano minacciose le scure torri ed i bastioni della cittadella”
La fortezza, ora più imponente che
arcigna, senza incombenti tetraggini d’aspetto, sovrasta alla
vista la città, e più non vi esenta di sè lo sguardo, come si acceda a
Chanderi dall’opposto versante, quello per il quale vi si è pervenuti secondo
il nostro itinerario, sicché la visione che ne ebbe il luogotenente resterà
tutta da raggiungere nella sua contrapposizione a distanza, dopo avere
traversato e visitato l’intera città. L’ingresso si apre ora a
noi in prossimità della Delhi Darwaza,
la porta (darwaza) di Delhi, una delle
quattro, su cinque originarie, che ancora sopravvivono della cinta muraria,
o kot, ultima, fra le
molteplici cortine di un tempo, che ancora in parte racchiude la
città interna, o andar sheher .
Fu sotto il sultano Dilawar Khan che ebbe inizio la sua
costruzione, e fu portata a termine
nel 1411, sotto il regno di Hoshang Shah, quando la città era sotto la
signoria dei sultani afghani di
Mandu. La caratterizza il rilievo su
ambo i lati del shardula, il mitico animale che dai suoi artefici mussulmani
fu attinto alla mitologia hindu, esso vi è raffigurato mentre è
intento a sgominare un elefante, per emblematizzare il potere
incontrasto dei governatori della città. Di matrice hindu sono pure le
mensole lavorate come fossero intagliate nel legno, nei loro boccioli
gemmei pendenti, che sovrastano plurimi gli stipiti interni della porta,
sagomati a loro volta nelle guise dell’ingresso di un palazzo.
Appena oltre la porta,
trattenendo ogni anelito monumentale, ci è concesso, non meno fascinoso, di
sviarci inoltrandoci, sulla sinistra, per i selciati delle strade sempre
più restringentisi e gli slarghi ombrosi dell’antica città
interna, che risorge alla vista nei suoi scorci d’incanto,
ove le alte murature e i pilastri di
supporto delle antiche magioni, o di occluse porte urbane,
trovano un seguito ed un insediamento in laboratori e
officine e scuole, ed odierne dimore,
calcinate di bianco e di blu, nei loro sporti sovrastanti.
A poco a poco l’antica città si fa
così il Sadar Bazar, nella varietà dei suoi negozi e commerci
artigianali, tra i quali primeggiano quelli dei rinomati sari di Chanderi,
confezionati nei laboratori che si possono intravedere e in cui è gradito l’accesso,
ove le fusaiole e i telai sono all’opera nell’intesserli.
Bellezza dei colori, dei semplici
motivi ornamentali, loro lunga durata, leggerezza ed eccellenza della seta in
cui sono lavorati, i pregi cui è oggi dovuta la loro fama.
Meno rinomata, ma di rilievo, anche
la lavorazione delle foglie di tendu per fabbricare di casa in casa
le bidi, o sigarette.
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Seguendo l’ opera femminile
intenta nella lavorazione dei sari, il vagare ci conduce inevitabilmente,
lungo la via che reca al forte, al
primo degli edifici monumentali, il Raja-Rani ka Mahal, il palazzo urbano del re e della regina di Chanderi, che ospita la più importante scuola tessile. E’ composto di due edifici
distinti raccordati da una galleria, ai margini di una vasto spiazzo.
Dai corridoi cinti da pilastri
che danno sui cortili interni, per l’altezza dei tre piani, all’ombra
di torri e chattri, si può accedere ai laboratori velati da tendaggi, o lo
sguardo si può sollevare alla magnifica vista delle mura e dei bastioni
possenti della fortezza sovrastante, o altrimenti può anticipare, sulla
sinistra, l’allinearsi dei bianchi sikkaras cuspidati
dei 24 santuari, svettantivi bandierine color zafferano, che
compongono il tempio Shri
Chaubisi Jain.
Grande è stata nei tempi la presenza
che persiste vitale della Comunità jain in Chanderi e nei dintorni, lo
attestano i templi che sono pressocché tutto quanto rimane
dell’antica , Budhi Chanderi, situata ad una ventina di chilometri distanza,
più ancora in altura, le sculture rupestri improfanate e i tempietti nelle
immediate vicinanze di Sri Digambar Atishay Khandagiri, o i siti di
pellegrinaggio nel raggio di una ventina di chilometri di Thuvanji,
Sironji, e quelli nei paraggi
più remoti e più celebri di Deoghar.
Più a Nord Est, tra Gwalior e
Jhansi, è la Comunità madre di Sonagiri, bella del biancore della sua
successione di templi lungo un intero pendio, ne proviene chi fu
il fondatore stesso del tempio Sri Chuabisi, Bhattaraka Harichand, mentre
oltre Lalitpur sussiste una costellazione ulteriore di siti jain non meno
importanti, nei pressi di Tikamgarh, Baldeogarh, in Khajuraho e
Nachna Kuthara.
Di due parti consiste il
tempio, di cui la più recente ospita ed offre alla devozione le 24
immagini dei 24 profeti jain o thirtankaras, una per ciascun santuario.
Se il tempio non si è prestato
che al vostro riguardo devozionale, poco più avanti, più sottostante al
forte, potrà rinvigorire la vostra sensorialità il vivace cromatismo hindu
della facciata del tempio in onore di Narashima, la quarta incarnazione di Lord Vishnu, semi-uomo, semi-leone.
Cinque gradini di pietra
sopraelevano l’arcata d’entrata, tra due gallerie che ostentano il più
brillante colorito, svariante di giallo, di rosso, di blu.
Le sovrasta un baldacchino
cupolato e guarnito di chattri, Ancora un cortile interno di smaglianti
pitture, o rangoli e si è al santuario del tempio per la
venerazione del dio.
Una retrocessione oltre il palazzo
di re e regina, ci conduce alla mole antica della dimora della casa di Baiju
Bahwra, il musico eccelso, e santo, che
primeggiò alla corte stessa del Raja Man Singh di Gwalior.
Ci si interni ancora di più,
volgendo a sinistra, e si perviene di lì a poco ad uno dei più
incantevli monumenti di Gwalior, le presunte tombe della
famiglia del santo sufi Nizamuddin.
Se ci si attiene a ciò attestano una
placca esterna ed alcune iscrizioni tombali, che fanno risalire i relativi
sacelli al 1425 quando era signore di Chanderi il Sultano del Malwa Hoshang,
che diede l’incarico di erigerle al ministro Malik Salaar, sono piuttosto i
sacelli di alcuni tardi discepoli del grande asceta sufi, sorti
al seguito della testimonianza di fede di Hazrat Wajihuddin, coevo di
Nizamuddin, preposto alle genti di Chanderi dal sultano Alauddin
Khilji.
Ciò detto, è bene forse
smemorarsene, per restare più assorti negli intricati incanti della loro
trascendenza ultraterrena, nelle trame di luce ed ombra che profilano
gli intagli geometrici e floreali, i rilievi in cui sboccia la pietra.
Incroci di diagonali dai fulcri
astrali, il loro intercidere ottagoni concentrici, trine stellari, pendenti
foliari, intrichi d’arnie alveolari, capolini floreali esagonali dal cuore di
stelle, da cui si dipartono e si interconnettono rombi di petali, la
profusione in cui può estasiarsi la mente.
Lasciati i sepolcri con
comprensibile stento, resta il dilemma se portare a termine la visita
monumentale della antica città interna, o ascendere prima al forte, senza
resistere oltre alla suggestione di entrarvi.
Confidando nell’ arte di indugiare
del visitatore, nella morosità della sua delectatio, e prediligendo l’ ordine
di precedenza cronologica dei resti, optiamo per ritardare
l’ascesa, dirigendoci verso nord ovest , dove s’ergono le
rovine e gli edifici più monumentali della città e della civiltà che finì
sottomessa ai Moghul, dopo la presa del forte da parte dell’ imperatore
Babur:
Si perviene cosi, irresistibilmente,
per i galis che sono come i
capillari dellacircolazione della sua rete viaria, al di quà dei resti
delle sue mura, i kot dell’andar sheer, o città interna, come si già detto, al monumento- simbolo
della città di Chanderi, la Badal Mahal Gate,
ossia la Porta del Palazzo tra le Nuvole.
Quando mai, al suo cospetto, sorge da dire al solo suo nome,
denominazione fantasiosa fu più realistica: solo tra le nuvole,
appunto, può situarsi il Palazzo fantasma cui immetterebbe, giacchè la Porta
ha un seguito solo nel fondale del forte sù in alto. Più prosaica e
fittizia, ci sembra la spiegazione del nome ch'è originata dal dato che
le sue torricelle sembrerebbero toccare il cielo,
mentre il vero storico, chissà, è che era una porta
trionfale, di rappresentanza, che preludeva per gli ospiti, tra
fiori e musica, ai palazzi di corte ed al forte. Certo è che fu edificata
nello stesso secolo d’oro degli altri monumenti islamici di Chanderi, per la
precisione nel 1450, quando il Sultano che da Mandu governava Chanderi
era Mahmud Shah Kilji.
Entro il complesso di cui fa
parte, la porta svetta nelle
due torrette che ne affiancano la cortina centrale, in essa si sormontano due
archi , dei quali quello superiore ha le sembianze di un affaccio su cui
incombe il graticcio finissimo di quattro jali, ma solo perchè
l’apertura, in realtà, è l’ammanco di altri quattro pannelli andati
perduti.
Una lunga storia, di reminiscenze,
prende corpo nelle torrette laterali inclinate. Esse richiamano e si
richiamano all’arte dei sovrani Tughluq di Delhi, già governatori
del’area di Multan, ora nel Pakistan, dai piloni inclinati delle cui moschee
trassero o trasmisero ai loro artefici l’ ispirazione di quelle affini
in Delhi, del secolo antecedente a quello della nostra porta. Le loro
vestigia si ritrovano nei villaggi ora inglobati nella attuale megacity, in
cui sorgevano le due città di Delhi fondate dai sultani Tughluq, dopo quelle
antecedenti di Qila Rai Pitora e di Siri: Tughlaqabad e Jahanpanah, quest'
ultima di raccordo tra Tughluqabad e Siri.
Adiacente a Tughlaqabad, è
dunque visibile la moschea inclinata nelle sue mura di Ghiyasuddin,-
quello Tughluq, da distinguersi dal precedente Ghiyassudin Balbab, che in
Chanderi già aveva fondato la congregazione originaria della grande
moschea-, mentre nei villaggi che corrispondono al sito storico
di Jahanpanah, sorgono le moschee dagli ingressi tra piloni, così come in
Chanderi la Badan Mahal, di Kirkee e di Begumpuri, da cui i caotici
villaggi circostanti traggono il nome. A completezza dei riferimenti, va
ricordata per i suoi minareti laterali inclinati anche la ulteriore moschea
tughluquide di Kalan, che è rintracciabile nella vecchia Delhi seguitando
l’arteria che vi si inoltra dalla Turqaman Gate, per distaccarsene
dentro strettoie di vicoli che tolgono il respiro.
Ma dalla nostra porta del
Palazzo tra le nuvole, la vista può spaziare libera su una vastità
di cieli, inoltrarsi con i voli degli uccelli nelle chiome in cui si
infoltano gli alberi retrostanti, o sospingersi verso la fortezza che
li sovrasta, differita e incombente, ove un bastione ne asseconda la
curvatura.
Eppure ancora una volta
ricusiamo, sia pure temporaneamente, il suo lusinghevole invito
attrattivo, per ritrovarci al di là della cortina dielle mura, ove è
adombrata la quiete islamica della Jama masjid, la moschea del Venerdì.
Benché la fondazione della moschea
congregazionale risalga alla riconquista islamica di Chanderi ad opera
del sultano Ghyassuddin Balban di Delhi, nel 1251, ( lo stesso il cui
mausoleo in Tughlukabad presenta la
inclinazione muraria che si ritrova nei minareti delle moschee
tughluquidi in Delhi e nelle torrette della porta Badhal Mahal, nella
nostra Chanderi), la Jama Masjid si evolse nel più puro stile afghano,
secondo i dettami dei Sultani del Malwa che da Mandu subentrarono nel governo
della città, al punto che se ne posticipa l’edificazione fino al periodo di
massimo splendore artistico che intercorse sotto il loro governo della città,
durante il regno dunque di Mahmud Khilji,- smentendo anche ciò che lascerebbe
supporre un’iscrizione rinvenuta nella moschea, secondando la quale si
dovrebbe retrodatare la sua edificazione al periodo della sovranità su
Chanderi di Dilawar Khan ( 1390-1405).
Al di là del meraviglioso portico
d’entrata sontuosamente decorato nella sua calda pietra, di fogliami
cuoriformi, intrecci di nodi, schiuse rosacee di corolle di petali, ecco
che intorno alla vastità del cortile, nei chiostri laterali,
o dalans, nella sala di preghiera sormontata da tre spoglie cupole
di marmo, senza che il complesso sia sovrastato da alcun minareto, la moschea
si depaupera di ogni ornamentazione, che non siano i medaglioni
di loto e i montanti serpentinanti, e si fa luce ed
ombra della sublime potenza di nude arcate e pilastri portanti,
per il raccoglimento assorto di sola meditazione e preghiera.
Per ridotte che ne siano le
dimensioni, più ornamentato appare il dargah di fronte alla moschea, ricco di intrichi di jali, di motivi
floreali, che inducono a supporre che sia stato edificato quando a governare
in Chandu erano da Mandu i Kilji del Malwa. Altri due dargah, più tardi, del XVII secolo, sorgono, poco oltre lungo la strada che
procede in direzione opposta all’ingresso in città per la porta di Delhi.
Alsecolo avanti, il
XVImo, risale invece il Chakla Baoli,
preceduto da due tombe, una vasto bacino acquatico scavato a cielo aperto,
cuisi scende per scalinate di gradini a forma di V.
Levando inevitabilmente lo sguardo
dallo stato d’incuria e d’abbandono in cui versa, possiamo scorgere quanto intanto
si sia fatto distante il forte in altura, come alla sua ascesa non
resti più da frapporre che il percorso che conduce agli inizi della salita,
tra il clamore del traffico sugli acciotolati, il clangore dei telai e
delle battiture metalliche nelle officine, e alte rovine fatiscenti e
isolate di altri antichi edifici.
Nel risalire invece alle
origini del forte, le inevitabili note storiche ci fanno retrocedere,
giustificando una sosta per prenderne nota, fino all’ XImo secolo
medievale, quando ne fece iniziare la costruzione un re hindu Pratihara che è
centrato nella leggenda locale, Raja Kirti Pal, da cui trae il nome di
Kirtidurg. Occore invece rifarsi più tardi ad Alauddin Kilj, sì,
quello appunto dal cui magnifico mausoleo nel complesso in Delhi del
Qutbminar, ha inizio l’assimilazione perfetta della curvatura di cupole ed
archi nell’arte indiana, per venire a sapere a quale conquista del
forte si debba la sovrastratificazione definitiva, anche in Chanderi,
della civiltà islamica su quella hindu, raggiungendovi il suo acme quando
agli esordi del XVmo secolo passò sotto i Sultani del Malwa in Mandu.
Se si sta alle cronache del
Baburnama, il libro di Babur, sembra che quasi senza colpo ferire nel dì che
si è già detto del 1527, l’imperatore moghul si sia impadronito della
possente fortezza: ” Io ho
espugnato questo forte rinomato, senza dovere sollevare le mie bandiere, o
battere i miei timpani, e impiegare l’intera forza delle mie armi”.
Ma il forte ci svelerà tra poco,
come a Babur, quanto di tremendo aveva significato tale arrendevolezza .
Risalendovi intanto, per la
massicciata del sentiero che vi conduce, ai rumori della città subentreranno
il canto degli uccelli e il clangore dei campanacci di capre, sospinte
per lo più da pastori bambini, mentre l'erba fa sempre più la sua
comparsa ai bordi e fra i ciotoli. Traverseremo così una soltanto
delle tre porte che rallentavano il passo, la superstite Khuni
Darwaza, o Porta insanguinata,
che trarrebbe il suo nome cruento dai cadaveri espostivi dei prigionieri che
vi finivano maciullati, strapiondandovi dall’alto delle mure da cui erano
fatti esemplarmente precipitare, durante il regno dei Sultani del Malwa.
Giunti entro le mura merlate,
cattura immediatamente la vista il complesso, o componud, di palazzi
sovrastificati addossati ad esse, per superarle in altezza nelle torri, e
nei chattri, in cui culminano i tre piani degli edifici aggregati
intorno a un luminoso cortile, costellato di vere di pozzi.
La vicina moschea, attribuita a Babur, ma risalente al XIVmo secolo, e di epoca
Kilji, sopravvive solo nella sala di preghiera, dal meraviglioso mirab
intarsiato di rombi ricamati nella pietra, dei più incantevoli boccioli
floreali.
E’ nei suoi pressi che dal balcone
della porta Hawa Paur ci
si può alfine affacciare sulla vista incantevole di tutta Chanderi sottostante,
del biancheggiare delle sue murature e dei terrazzi dei tetti, nel dedalo di
vicoli curvanti e di slarghi di cortili, entro la chiostrahe le fa
corona, delle colline sormontate in cima da dei dargah , ove già
si possono ravvisare, sulla sinistra, i bacini lacustri dei siti di caccia,
la Kati Gathi intagliata
in una gola rupestre, mentre tra gli abitati e l’infoltarsi degli alberi
in Chanderi, è ora un’ incantevole meraviglia ravvisare nella
panoramica, ad uno ad uno, pressocché tutti quanti i monumenti già visitati,
come in un loro plastico che ne è invece la visione fragrante e reale: eccoli
di nuovo, miniaturizzato, il Palazzo del Re e della regina, il tempio
jainista accanto, con i sikkara e gli stendardi color zafferano sventolanti,
più sottostante il tempio di Narashima, e più oltre, come si allarghi, la
vista, la porta Badal Mahal, la Jami masjid, il tutto incantevole,
stupendo...
Nel distacco, giova recarsi per
assoluto contrasto al Jauhat Tal, la fonte primaria per il forte d’acqua sorgiva, e vi sapremo
che cosa rivelò d’atroce, il suo pozzo, sui retroscena dell’arrendevolezza a
Babur di Medini Rai e dei suoi militi e cortigiani hindu : 600 donne del
Rajput si erano gettate dentro nel pozzo in un suicidio collettivo, pur
di non finire stuprate e oltraggiate nelle mani del nemico.
Una lasta di marmo nel padiglioncino
eretto sul tal, commemora il loro sacrificio.
Più a Ovest è la tomba del
grande musicista cantante** Baju Bavra,
cui, per la dedizione totale alla musica del cuore infranto da un amore
deluso, si rese nel canto possibile l’impossibile: in una tenzone
canora vincere di fronte ad Akbar medesimo il mitico Tansen, suo
favorito.
La discesa dal forte ci porta, in
conclusione dell’itinerario, a risalire i pendii, poco oltre il termine della
discesa , che gradino dopo gradino ci recano al tempio hindu Shri Jageshwari.
Stando alla leggenda ch’è
persuasione locale, sarebbe statta fatta edificare dal medesimo
Kaja Kirti Pal che avrebbe dato inizio all’insediamento del forte, ma
stavolta per una ispirazione della stessa Dea.
Come in ogni mito che si rispetti,
anche in questa leggenda c’è chi non sa resistere alle prescrizioni di
attendere, e si volge ad Euridice prima che sia fuori del Tartaro. o
all’indietro a vedere Sodoma che ancora brucia, sicché Kirti Pal inaugura il tempio prima dei tempi convenuti, e la dea vi
manifestò se stessa solo nell’ emersione del volto.
In una cava vicino all’entrata principale
sta l’idolo prezioso della dea, e un tempio moderno ceramicato ne
assiste il culto.
Tra i vari padiglioni, tinteggiati
tutti di bianco, due shiva linga, in pietra nera, si distinguono tra tutti
gli altri, con il loro toro Nandi in
adorazione, perchè recano
scolpiti 1.000 più piccoli linga, alla stregua dei mille, e più
Buddha, di innumerevoli luoghi di culto buddhisti.
Un’antica immagine rupestre di Shiva
e Parvati, scolpita nella roccia retrostante il tempio, un dio Hanuman,
anch’esso scultoreo, immancabilmente tinteggiato di rosso arancio, sono le
reliquie salienti del tempio, prima di ritrovarci al termine del nostro
itinerario, ai piedi del colle, presso il bacino lacustre del Sagar Kund, cui
i ghat discendono tra quattro chattri agli angoli.
E per noi resta soltanto il
respiro del Dio in una brezza fra i rami, che percorra gli anfratti
e i templi nella cavità del monte.
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Riprendiamo freschi di nuove energie la nostra visita, ed eccoci pervenuti , preso un tuk tuk,
a quanto di più bello, a non più
quattro chilometri di distanza dal centro, in direzione nord ovest, v’ è
in Chanderi nell'ambito dell'architettura civile: il Koshak Mahal, eretto da
Mahmud Kalj in onore della moglie Koshak che vi ebbe il terzogenito.
Sette avrebbero dovuto essere forse i suoi piani, di
cui tre soltanto sono giunti a termine, più un quarto semifinito,
sopravvivendo a ogni tentativo di distruzione, ultimo quello del British dopo l’uprising, l’insorgenza indiana del 1857: sette
piani quanti furono sette i giorni celebrativi la vittoria di Mahmud Shah
Kilji su Mahmud di Jaunpur a Kalpi nel 1445.
Come un Char bag pietrificato, è un enorme
edificio cubico, di 35 metri per lato, in cui quattro archi preludono a
quattro passaggi arcuati che s’incrociano al centro dell’ edificio, originando
quattro quadranti a più piani, inflessi anch'essi in serie di archi e
gallerie arcuate. Scalinate raccordano i piani, finestre
balconate si aprono all’esterno immettendo luce. L’ornamentazione
è ridotta ai minimi termini, al solo apparato di medaglioni di
loto, di marcapiani dentellati e di trafori di jali al culmine degli
archi inferiori, per lasciare il campo architettonico alla nuda potenza
immane delle masse murarie voltate e dell’incurvarsi degli archi, nel
rilancio del loro slancio di piano in piano, di campata in campata, senza che
la perfezione espressiva della tensione che si è sprigionata si risolva
nel suo sedarsi. Il tutto nel calore inesausto dell’ardore vibrante di una
pietra incensa.
Di rientro in Chanderi, lungo il tragitto è possibile soffermarsi,
a poca distanza, presso il Museo
archeologico dell'Archaeological Survey of India, inaugurato nel 2007 e di
concezione contemporanea.
E' imprescindibile per una rievocazione, sin dalla preistoria, del
passato della regione circostante, mentre di Chanderi sono ricostruite le varie fasi, a iniziare
dall'insediamento originario di Budhi Chanderi, in altura, di cui sono
esposti i reperti . Al pari delle rovine templari del sito, distanti 18 km,
attestano come fosse un grande centro Jain, al pari di Thuvanji, Sironji,
Deoghar nel circondario più prossimo.
Le immagini di tali siti, come delle meravigliose ornamentazioni della
sala ipostila del tempio Gupta di Beathi, possono essere un invito da non
lasciar perdere a visitarli, insieme con le località archeologiche che
ricorrono in prossimità della strada per Mughawli, Nanon in particolare, le cui pitture rupestri figurano sulle
pareti delle cavità rocciose, di riparo, che sovrastano la confluenza tra due
rivi in altura.
E ' poco distante dal Musero il Ram Nagar Mahal, il più rilevante
monumento hindu di Chanderi, un Palazzo che fu fatto edificare nel 1698 dal
Maharaja Durjan Singh Bundhela, e restaurato nel 1925 da Madhao Rao
Scindia. Disposto su tre piani, serviva da buon ritiro per la caccia dei
marahaja hindu, ed ospita ora il Museo del MP State Archaeology Department,
di cui i reperti più significativi sono le pietre celebrative delle
immolazioni muliebri della sati.
La sala interna che le ospita, cosi come il cortile, per il tramite di
tre porte che immettono al balcone che vi si affaccia, consente di accedere
alla vista del lago, il Ram Nagar, che già si era offerto alla nostra vista
dall'alto della fortezza di Chanderi. Fu nell'imminenza della cattura del
forte, che Babur trascorse la notte su queste rive.
Lasciando il Ram Nagar Mahal, siamo oramai prossimi più a sud, a Shri
Digambar Atishay Khandagiri, il più rilevante sito jain di Chanderi, a
ridosso di un'altura verdeggiante,
Le grotte che vi sono state scavate sono ancora più remote delle statue
che vi vennero scolpite all'interno, tali rilevi risalgono al
dodicesimo, tredicesimo secolo della nostra era, e si sono preservati senza
patire sfregi o dissacrazioni. Primeggia tra essi la statua imponente di
Rishabhnath, che fronteggia impavida nel tempo i 14 metri della propria
altitudine abrasa dal tempointatta.
Due templi sottostanti, una foresteria, un training centre completano il
complesso.
Inoltriamoci ancora più a sud, e sarà di li a poco raggiungibile un altro
suggestivo monumento del circondario di Chanderi, avvistabile anch' esso in
miniatura dall'altezza del forte: é la Kati Ghati, la porta intagliata nella
roccia di un colle che immette in Chanderi dal Malwa e dallo stesso
Bundelkand.
In funzione dal 1495, si offre ora al transito di armenti, e dei fuori strada,
così come sarebbe stata edificata in una notte, per l'arrivo in Chanderi di
Ghiyassuddin Khiliji, da un artefice altrettanto portentoso quanto
disgraziato.Il lurco governatore locale, a dispetto del suo meravigliato
stupore per l’impresa, ebbe la micragnosità di rilevare che vi era la porta,
ma non i battenti, e dunque rifiutò di pagare il capomastro, che tanto
ne fu scornato che si suicidò- Presso la porta si può ancora vederne la
presunta tomba.
Un'altra leggenda vuole che sia stato invece Babur a volere che una porta
disostruisse l'ostacolo che il colle, in cui fu ricavata, frapponeva
all'assalto del forte di Chanderi, Un minuto mirhab intagliato nella roccia,
presso lo scavo della porta, e tutt'ora ben visibile, gli avrebbe consentito
di pregare per il fin troppo facile esito della battaglia per la cattura del
forte, ed è all'origine di questa storia ulteriore.
Altre leggende infioreranno il nostro percorso ulteriore e conclusivo nei
paraggi di Chanderi.
Esso ha la sua prima meta nel romantico e incantevole Parmeshwar tal, uno
specchio d'acqua dall'accesso sconnesso e oltraggioso della sua bellezza,
irredento, nell’ultimo tratto, dai resti poco distanti di un antichissimo
tempietto hindu shivaita e sfinito dal tempo, in stile remotoPratihara. Sul
lago si affacciano, fronteggiandiosi, il biancore dei santuari del tempio
Lakshman e i resti imponenti di alcuni chattris hindu di Re Bundela,
Bharath Shah e Devi Singh. Fu in queste acque che il mitico
re fondatore Kirti Pal, della dinastia Pratihara, glorioso e lebbroso,
essendovi reduce dalla caccia nella giungla più profonda, trovò una cura
miracolosa che lo depurò della sua lebbra. Gli apparve allora la dea
Jageshwari, chiedendogli, come il lettore potrà facilmente supporre, alla
luce degli innumerevoli altri tramandi dello stesso canovaccio leggendario,
di costruirle un tempio sulla vicina collina, con il solito annesso divieto
inderogabile, che nel tal caso era l’intimazione di mantenerne chiuse le
porte per nove giorni, a frustrazione
della sua curiosità. Immancabilmente il re venne meno all'interdetto, e di nuovo fu afflitto dalla lebbra. Era
allora la vecchia ( Budhi) Chanderi la capitale, d un tremendo terremoto di
lì a poco la distrusse, obbligando re Kirti Pal a trasferirne il sito dove
ora sorge Chanderi.
Obbligo di completezza ci impone di riferire, a gloria del tempio
Laksman, la consueta storia di un
idolo del Dio che non ne vuole sapere di starsene dove i devoti l 'hanno
sistemato, in tal caso l'ombra confortevole di un peepal, e che non s'
acquieta fin che non lo dispongono nel luogo richiesto, per l'appunto dove
ora sorge il tempio Laksman.
Il devoto vi può onorare anche il dio Shiva e Radha Khrishna, in annessi
tempietti, mentre la kutya,
ossia una capanna, è la stanza adibita al culto singolare di Vibhishan, il
fratello virtuoso del demone Ravan.
Di poco a defilarsi tra i campi più a est, sorge in tutta la grazia delle
sue serpentinanti mensole il mausoleo Shehzadi ka Rauza. Le tettoie o
chhajja che esse sorreggono, lascerebbero supporre che l'interno sia a due
piani: duplice è invece solo l'ordine delle arcate, quello superiore di
dimensioni più ridotte, al pari di quello esterno rispetto all’ inferiore, su cui sfora l'oculo celestiale
della cupola franata, insieme con tre dei quattro chattris che l'attorniavano.
Un fregio in ceramica blu che ricorre sopra la gronda superiore,
accredita che le calde pareti, ora
fulgide di luce, fossero un tempo ricoperte di mattonelle smaltate.
Il suo ingentilimento, come quello delle merlature in cui si apre lo
schiudersi del loto, ne attesta la natura muliebre, e prelude alla leggenda
dolente e funeraria che ora narrerò.
La principessa Mehrunisssa si era innamorata di un comune comandante
militare, senza gradi di nobiltà. Il padre, disapprovando la loro relazione,
cercò in tutti i modi di dissaduerla e di farla desistere, ma ogni suo sforzo
fu vano. Risolse pertanto di porre termine alla relazione facendo assassinare
l’amante della figlia. Il giovane uomo, benchè gravemente ferito, riuscì a
sottrarsi ai suoi carnefici e ad essere di ritorno in Chanderi, dove crollò
di schianto ed emise un gemito agonizzante. La principessa ne riconobbe la
voce morente e accorse dal suo amato, ma solo per essere in tempo a
raccogliere l’esalare del suo ultimo respiro. Sconvolta, e con il cuore
infranto, ella pure trovò allora la fine dei suoi giorni. Ove i due amanti
spirarono accanto, due lastre di pietra contigue, con scolpiti due nobili
cavalli, indica presso la Shehz adi Rouza che ivi i due amanti si riunirono
nella morte trovando nel mausoleo sepoltura.
Procedendo ancora più fra i campi, e più a est, sotto un monticello
su cui si erge il bianco Ali ji-ki-darghah, possiamo ritrovare la magnifica
Shahi Madarsa, risalente ai re Khilji di Mandu.
Sarebbe stato il solito Babur a violarne la natura di scuola,
insediandovi le false tombe all'interno, demolendone le cupole.
Foss'anche avvenuto, il presunto misfatto non ci impedisce di ammirarne
lo splendore delle jali scolpite, inserite, come un diaframma di
luce nei loro intagli, lungo i muri della parete in comune della camera centrale e del portico
maestoso che le volge intorno
Una camminata per il terreno roccioso, ci può condurre, più a sud,
all'ultima meta del nostro viaggio, il Battisi Baoli, ch’è il meglio
preservato dei 1.200 baoli di Chanderi, tanti quante erano le 1.200 moschee che vi sarebbero sorte, di
cui dice magnificandoli l'Ain i Akbari.
Iperbolico il numero, quanto il fabbisogno d'acqua della Chanderi
Medioevale, in arida altura, a sei chilometri di distanza dallo scorrere delle
acque del Betwa, con una popolazione in aumento sino alle 100.000 anime.
Fatto sta che di baoli possiamo ancora ammirarne vari in Chanderi, il
Chakla Baoli e il Moosa Baoli nel centro attuale, oltre al Battisi Baoli
presso il quale volge al termine il nostro itinerario. E’ un grandioso
bacino quadrato della
profondità di quattro piani, con quattro scale (ad esso) d'accesso, che
rappresenta l'estrema sublimazione, in un edificio civile, della tendenza
dell' arte islamica di matrice afghana, diffusasi in India, all’astrazione di
ogni ornamentazione sino al supremo spoglio, affinché la nuda potenza in
tensione, o la sobrietà grandiosa delle pure volumetrie architettoniche,
cantino la gloria di Dio o dei benefici del potere civile
19 luglio 2013
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