Lettere dalla provincia |
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V.
A., padrone ed amico, alfine
qui giunto, da due mesi, solo di una cosa io ora ti prego: se a me, uomo
sempre e comunque di ascendenza servile, eppure è lecito formularTi un
voto, tu esaudisci questa mia unica supplica: e fa ch'io resti, ora e per
sempre, in questa remota terra della più remota delle Province; poiché
qui ove le nebbie non diradano mai, e la notte si confonde col giorno, nell' internarmi alle tenebre di ogni luce del mondo,
qui alfine ho riattinto l'Anima; ed ora che più non vago perduto nel
lusso, Lasciami
dunque qui intento, fra i pochi volumi che ho appresso e i soli negozi
della tenuta dei fondi, confinato nel più felice degli esilii, se nulla
di esteriore qui è una tentazione a evadere dai territori dell'anima, e
questi indigeni, facili e brutali, sono un perpetuo monito che non c'è che
l'onta da acquisire, nel perdere la propria dignità nel commercio dei
corpi, laddove, nella Capitale, quei corpi e quelle menti erano
un'illusione perpetua nella loro raffinatezza. Ed
ora che una vampa più esangue contrasta le tenebre, il mio pensiero
memore ti lascia per l'ombre ed i sogni, da Roma e dai vivi riattendendo,
in un domani, la sola reale consolazione (il solo reale conforto) della
tua parola. Un'infinita
inedia A
V., mio amico e signore, fraternamente
ti sono grato di come pur sollecitandomi ad un ritorno, eppure tu non ti
opponga alla mia permanenza in queste regioni. Tu
mi scrivi che non ti sorprende che ora mi prostri l'acedia . "
Il tuo volto era velato già in Roma. L'esercizio delle tue forze ti era
evidentemente divenuto una fatica immane. Già tu avevi perduto il gusto dell'agire
e dell'ottenere, e la riflessione Vivamente
mi esorti, pertanto, a ritornare comunque a Roma: "gli
affari del Foro e gli antichi piaceri ti guariranno". Caro
amico e signore, sono troppo solide le tue ragioni concrete. Or
io sono un ellenico, nel mio retaggio, e come ellenico non posso essere che un uomo che medita,
ossia chi per i più è un uomo malato. Tu
ben sai, ch'eppure ho tentato di agire nel mondo, e come nei vicoli e
nello splendore palatino, vi abbia ricercato la turpitudine di ciò che è
eleganza. Ed in ciò, non mi sei stato soltanto accant . Quando
cercavi di decifrare il corso degli eventi imperiali, a che soggiaccia
l'agire di un Augusto e dei suoi nemici, è a me che ti sei rivolto come
ermeneuta. Ma
l'agire mi ha smascherato la mia debolezza infinita, e come per avere io
abbia consentito l'abuso della mia persona, sicché il tradimento di me stesso
era divenuto la mia abitudine quotidiana. E
se ora mi preservo confinato fra queste nevi, è altresì per non
soggiacere più al modo in cui un tempo mi usasti. No,
non ti muovo rimprovero di questo, tu mi fosti parimenti fatale e caro, ed
io non posso per questo biasimarti, se ero io stesso che in te ricercavo lo sfogo di una crudeltà infinita. Ma
la mia Anima, troppo feritasi, non può più soggiacere alla sua natura
servile, e mi è ora insostenibile la ferocia che appetivo. E
questo è quanto mi rimane da dirti, diacciato nel candore delle nevi
intorno silente, quale nella sua beatitudine una divinità indifferente. Sacerdos A
V. Di
che dubiti? Le notizie che mi hai recato mi hanno comunque interessato, e
nello scrivermi di nuovo, mi sarai oltremodo prezioso se mi informerai dei
casi ulteriori di Roma. Il
mio esilio, in questa valle di tenebre, è pur sempre un sottostare al
mondo e l' onorarne le leggi. Che
il senato non sia più che un vocio di bocche, e che il Principe si renda
tanto più amabile quanto più avvilisce mordace ogni altro potere,
irresponsabile di ogni offesa che reca, è nel corso delle cose naturali. Roma
ha il volto spietato ed ilare di ogni potenza. L' arroganza stessa dei suoi
ventriloqui del popolo, nel fiutarne e provocarne a proprio favore gli umori più fetidi,
allorché invece prosterna, come mi dici, chi ancora ha altezza d'ingegno
e resiste, non è che un'altra guisa dell' indifferenza della Natura per
le nostre fortune. Ed
in quanto sono del Portico, debbo accondiscendere a Roma con l'ardore
medesimo del mio amore del fato, onorarne la violenza e la corruzione,
come onoro la terra e il letame che la rende fertile. Ma
di ogni potenza, recita il corso degli astri, esiste prima o poi una
morte. E per quanto i traffici e il lusso mi inebriassero l'Anima nella
capitale, io nella frenesia del Foro, e nel clamore dei trionfi, il
respiro del successo lo sentivo ugualmente alitare putrido. No,
non è immortala la forza che si celebra nel bronzo. E
se mi chiedi che cosa di perenne pur incalzi nella sua vigoria ( pur arda
nella sua vampa), io ti rispondo che è quanto ancora vi germoglia(,) del
seme eterno dello spirito ellenico, che non abita le sole contrade della
carne e del sangue. Le
nevi ora quivi si disciolgono alla primavera incipiente, e la mia anima
vive il fervore delle erbe e dei fiori che intorno rinascono, nello
scorrere delle acque e delle nubi alitando il proprio respiro ( allo
scorrere delle acque e delle nubi assimilando il proprio respiro). E
così quietato ti saluto, ora sacerdote floreale di Venere celeste.
Il
distacco Diletto
A. V., nella
tua ultima lettera, or ora giunta, tu mi manifesti di non intendere ancora
appieno le ragioni del mio distacco da Roma. Mio
caro, se in Roma è il farsi plebe che necessita, e la turpitudine è il
prezzo di ogni umano commercio, se l'udienza del mondo vi è la perdita
della voce dell'Anima, che tutto questo vi avvenga, purché senza di me. Io
non condanno la gente nuova e l'antico Senato, gli atti di sangue per i
nuovi e gli antichi simulacri, per più ancora denaro o ciò che è solo
memoria nel tempo; ma io che non sono carne della vostra carne, io non so essere più
precettor,e od istrione, in una capitale dove a maggior godimento delle
proprie fortune, il dolore dell'infelice e del vinto non è che
spettacolo. Oramai
solo l'uomo che ride ha cittadinanza romana. E
poniamo che sia vero ciò che mi dici, che la carne è la verità
dell'anima; ma il viverla, in ogni coniugio,
importa l'inganno di una menzogna perpetua. E
poiché non è possibile vivere altrimenti una vita dei sensi,
ciò che già fu la mania del sangue in me più non aspira che all'
eterno, che ad essere l'eguale respiro (di bronzo), nelle stagioni del
mondo, dell'anelito cosmico che muove ogni cielo. Post
scriptum. Chi
è come te E
questo è ciò che è beatitudine e saggezza, e che ci fa distanti e
amanti l'uno dell'altro. Così
nuovamente io ti saluto, da dove non mi è più dato ricevere altri tuoi
ordini. Solitario
fra i bruti Mio
caro A. V., Da
quanti mesi, oramai, qui io persisto solitario fra i bruti, discosto da
uomini oramai inaccessibili. In
questa desolazione di esseri e cose, la solitudine mi ha insegnato
frattanto i piaceri più elementari: il calore dell'alacre fiamma nel
morso del gelo, la sazietà di un pasto incondito dopo gli itinerari
estenuanti, o il riposo del sonno, Ma
nei recessi dell'ombra, l'Anima si è ancor più popolata dei demoni della
mia libidine, e gli aperti spazi, e i silenzi degli astri, sono un vuoto
infinito che solo loro gremiscono. Dunque
quest'Anima, il cui Egemone nei
vicoli di Roma mi faceva desistere per la mia dignità superiore,
facendola paurosa
e vergognosa nel desiderio più vivido, quanto più ora si fa freddo il vuoto
della sua patisco
pertanto sempre più debolmente, in una letargia che sempre più fa
identica la mia veglia al sonno. Il
dono supremo Vale
atque vale, per sempre, per sempre mio caro A.V. In
queste contrade infine il mio spirito ha perduto ogni volontà superstite. Ed
ora, infine, il filosofare in me non è più solo discorso, ma inedia
vera della carne e del sangue, e la mia abulia, in tutta la sua verità, è il volere
soltanto ciò ch'io non sono. Anche
l'ombra interiore ora mi è vuota, e le braci non sono che brivido Nelle
estreme faville fuggita è ogni Anima di Mani e di Lari, e nella beltà
dei corpi, vincolo estremo, per me è superstite solo una brutalità inerte che
mai non consente. Così
l'inchiostro di queste parole nel loro divenire la mia verità ultima, si
fa il sangue che cola dalle mie vene, mentre ogni vigore viene languendo,
e dalla latebra incombente ti porgo sull'orlo l'estremo saluto, senza più
tormenti di piaceri o sete di fama e di gloria, ora che la tenebra mi ha
divorato ogni luce celeste, ed io felicito di non essere, al più presto,
più nulla di vivente che patisca. Solo
quest'ultimo voto ho le forze ancora di porgerti: dopo la mia morte, con
le mie ceneri, disperdi ogni mio scritto. Ogni
(mia) residua traccia che mi sopravviva. Perché io sopravviva nel tuo solo
ricordo. Così
che la tua morte a venire, sia della mia fine perfetta il dono supremo.
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