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L'insulto

 

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Anticipazione del seguito di Post Israel

 

Il primo sabato di Settembre

 

Durante la settimana intercorsa dopo l' acquisto della bicicletta, era come se le mie fuoriuscite, quali una carezza intimidita che lambisce il volto che ti è caro senza mai sfiorarlo, si fossero dirette ovunque nei paraggi adiacenti, fuorché nel paese dei miei allievi più diletti, il beneamato Ciuf Ciuf e la sua banda in erba.

Eppure discostandomi dal Pò, nei giorni seguenti quello degli scritti di riparazione, il viaggio di ritorno nel paese ove le corti lungo la strada erano state insediate a pettine, mi aveva approssimato fatalmente alla deviazione che vi conduceva per un percorso insolito, svoltando sulla destra dell'arteria stradale per Sabbioneta.

Così quel sabato pomeriggio, nel riprendere apparentemente senza mete fisse la strada parallela alla Sabbionetana, già sapevo che svoltando avrei finito prima o poi per immettermici, e che l'avrei quindi risalita fino a quella deviazione sulla sua destra.

Per quale altra ragione, mai, mi ero vestito a tutto punto da ciclista, infilandomi nelle tasche della bici per l'evenienza entrambi i berreti?

Con il cuore che mi palpitava emozionato, una mezzo'ora dopo, infatti, ne ripercorrevo già le anse tra il verde dei campi che vi tracimava ai bordi, a ogni curva e controcurva occhieggiando intimidito le corti e i prospicienti muretti o le capelle votive, quasi che da questo o quel passo carraio o dall'una o l'altra aia, un loro volto noto potesse intravedermi o mi venisse incontro divertito o stupito.

Che ansia fredda, in apprensione, agitava intanto la nostalgia del mio grazioso amico divenuta in ansia, timorosa che il prefigurare stesso le battute giocose, potesse freddarle in una ritualità a disagio.

Ah, l'estro vivace e la grazia di se insaputa e così incantevole del suo caro sembiante, come seguitava intanto a profilarmisi e ad addolcirmi l'animo, a riguardarmi con l'intensità sconosciuta agli altri dei suoi vivissimi occhi, timorosi e avidi di quanto mi imploravano struggenti celandolo a ogni altro, di che mai solo potesse significare tanta intensità reciproca di attaccamento.

Ed io non dovevo assolutamente, mi ripromettevo, di tale intensità tradire la natura ideale, resistere ad ogni celia che fosse indiscreta, puranche alla tentazione per il suo ciuffetto, di battezzarlo in un orecchio con scherzosa indecenza " "Bananito".

Certo avrei scherzato sulla loro juventinità, " ucci ucci, sento odor di juventinucci," avrei potuto salutare il loro farsi appresso, e anche il fatto che da solo o con altri non fosse venuto a trovarmi, avrei potuto pur ammaliarlo in una celia o ammantarlo in una sola punta di rammarico, col rammentargli il caro raccontino sul loro prof interista che avevo pregato lui ed " Argat" di inviarmi, e che certo, se vi ero paventato come uno " psicopatico", beh allora si capiva perchè di me stessero alla larga.

Intanto, pur se quel percorso secondario si era rivelato più prolungato di quanto supponessi, il paese era oramai prossimo, oltre il passaggio ferroviario ora mi addentravo fra le prime case di periferia, giunto ad un incrocio ero già nelle vicinanze del centro che si preannunciava nella mole in restauro della torre civica, pur se i tigli odorosi, e la segnaletica, seguitavano ad avviarmi al viale della stazione ch'era di fronte.

Così era aggirandolo dal retro oltre le vie d'accesso diretto, che ne erano sbarrate, che pervenivo ove il centro già era attraversato dalla statale verso Cremona che divide il paese in due, e che giravoltando esteriormente ozioso e intimamente agitato, ero calamitato da un bar gelateria al cui aperto stazionavano dei giovani.

Lì certamente, era possibile trovare lui o qualche suo amico,

tanto più che all'interno del bar una sala giochi era adiacente alla gelateria.

Intimidito ed esteriormente calmo, come un cowboy che alla staccionata smonti di sella prima di entrare nell'ignoto saloon, così stirandomi la schiena scendevo dalla bicicletta che parcheggiavo e chiudevo a chiave a ridosso del bar, quindi ciondoloni sui tacchettini come se avessi ai piedi gli speroni, salivo la scalinata d'accesso ad ordinare al barista un gelato ( (anzichè il wiskji dei western), quando alle mie spalle sentivo salire e montare (i) commenti, condensarsi e gravitarmi intorno quell'atmosfera già nota.

Così se al barista ora indicavo i gusti prescelti con la voce incrinata e ridotta ad un esile filo, era perchè sentivo e presagivo,  già benissimo, che cosa mi attendeva di fuori.     

Non c'era infatti bisogno che ne sentissi il contenuto, perchè capissi a chi e a che cosa alludessero epiteti e commenti, dal tono inequivocabilmente ingiurioso e certissimamente rivolto alla mia persona.

Ora sedevo alle spalle di quella feccia sorbendo il gelato, mentre quella agiata progenie seguitava ad insultarmi ripetutamente come un culo pur anche per nome e cognome, ed epiteti già noti, come se io non fossi affatto lì presente, e comunque non potessi che subire.

Si trattava di studenti del mio Istituto che non erano e non erano mai stati miei allievi, dunque nemmeno giustificati da risentito rancore, meri esecutori di una gratuita aggressione a freddo,  dei vigliacchi profumati e freschi che si facevano forti solo del numero e della certezza che se avessi reagito, il mio vilipendio sarebbe stato più ancora clamoroso.

Di fronte a loro potevo vedere appollaiato sul suo motorino un mio ex allievo con un sorriso di scherno agli insulti rivoltomi, un altro di seconda, seduto su un largo sdraio, che stava riparando a settembre in altre materie, e che al saluto che gli rivolgevo ignorava pur anche di riconoscermi.

L'impulso interiore era quello di avvicinarsi dal retro a uno di loro e sgozzarlo all'istante, la reazione era quella di ostentare indifferenza nel più godurioso sorbimento del gelato.

Imponendomi di rimanere comunque seduto, allargandomi scomposto con la mano sugli attributi come se vi fosse compiutamente a mio agio, almeno fino a che non avessi consumato l'intero gelato.

Ma gli insulti non desistevano, anzi, diventavano un più aperto discorrere che ridicolizzava tutto di me, il richiamo , a uscire all'esterno, a chi mi era allievo ed al mio arrivo si era nascosto all'interno di me vergognandosi, un allievo che aveva appunto il suo nome...

Il colpo che accusavo era tanto violento quanto subitanea la sutura interna: se era così, la sua imago era già un guscio di crisalide che scrollavo via...

Certo lì non l'avevo intravisto con gli altri, eppure ... eppure anche lui c'entrava di certo, anche lui doveva pur aver contribuito in qualche modo, con l'indiscrezione o lasciandolo circolare più ancora liberamente per salvaguardarsi, a che il discredito sul mio conto in quel borgo si approfondisse.

Come avrebbero potuto altrimenti fare appunto il suo nome?

Così, riflettevo intanto (riflettevo al termine della consumazione di quel gelato), io che in Israele prevenendola

avevo paventato l'ostilità diffusa dei palestinesi, che pur non temendo pietre o agguati, m'ero cautelato dal fastidio di riscontrarla sedimentata nelle genti di Betlemme o di Nablus non accedendovi, che in Gerico avevo saputo eluderla quando s'era manifestata, subivo lì l'imprevisto dell'agguato, poichè rientrato fra conterranei, avevo abbassato la maschera mosso dall'anelito più cieco a ricongiungermi, dimenticando che lì più ero e sono uno straniero, l' intollerabile presenza di un altro che disturba il tenore raggiunto, la brutalità acquisita del

proprio utile imbarbarimento.            

Che eppure avessi accusato tremendamente il colpo, lo denunciava il tremito con cui mentre risalivo in sella accoglievo l'allievo di seconda che mi si avvicinava, il quale riparando anche al suo atteggiamento precedente, ora mi riconosceva e scambiava formalità.

Eppure era un ravvedimento, e con la mia cordialità gliene ero grato.

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