Bagliori e
incanti
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Ogni
nuovo mattino è il reincarnarsi disfatti
Ogni
nuovo mattino è il reincarnarsi disfatti,
insonne
l'ansia nel torpido esangue,
le
morte fiamme agli opachi specchi
in
demoni ed idoli alla ricerca del fuoco,
quando
ciò che fu sogno pietrificato è in silenzio,
delle
nuvole, di passaggio,
al
primo chiarore l'inesausto sfacelo,
così
l'inoltrarci tra le necessitate presenze,
il
riverbero nelle morse che si disbrama,
nel
riafflusso, già dell'urgere,
gravitante
il crogiuolo d'anime e d'auto,
oltre
la soglia quei volti già predisposti,
la
parola ripresa al punto interrotto.
Nella
nebbia si soggiungono labbra di un tempo
Nella
nebbia si soggiungono labbra d'un tempo,
ma
l'Impiccato il tuo arcano è in amore,
così
da soli è l'andare ulteriore
il
vanire da soli orizzonti
per
pagine e vie,
eppure,
se infranta la sorte e il destino è versato
di
noi dediti i morti al benestare comune,
nel
velame tu fervi al folto di macchie,
al
fogliame nel gelo che smorendo s'infiamma,
all'intima
fibra nello stremo raccolta.
1987-88
Chi
più non vede nella luce dei vivi
Chi
più non vede nella luce dei vivi
ha
ancora più freddo nel loro calore,
è
più ancora smarrito nel loro trovarsi,
insensato
da ogni parola che dicono.
Ne
ripercorrono i passi
il
vuoto infinito
nei
loro abitati,
lo
popolano spettri ad ogni affollarlo,
sconciato
se il vivo lo incanti.
Eppure
nell'inoltrarsi, scarnificatosi il volto,
invasando
d'eterno il tacere dei resti.
1989-90
Anche
se nell' intrico ancora ti inoltri
Anche
se nell' intrico ancora ti inoltri
non
ti recano più le foglie respiro di voci,
e
l'aria ti è imbalsamazione,
riesumandovi
i marmi il vuoto del Tempo,
gli
interminabili volti l' incarnazione di ossami,
postumi
di ogni sembianza
eppure
ancora in un'ora presente,
dove
non latrano nel vento che cani di pietra,
e
la vanità di un corpo ti è tragico assenso,
nello
sfinirti ancora a uno strappo
ridicendoti
che sei il ritorno sugli stessi passi,
quasi
che il polipo fosse un'anima sacra,
o
tu ignorassi l'antico sgomento
che
nessuno di dentro a te muore.
E
nel chiarore palpebri tenebre e sangue
E
nel chiarore palpebri tenebre e sangue,
l'espurgo
delle carni a disfogarsi sui marmi,
ma
nel riorbitarvi di cupole ed archi
nega
il fermento il placarsi in ismalti,
la
fiamma divampa
il
sublime a inestinguersi,
tra
le mercature riaccese il cammino di spine,
nell’
eterno istante in cui tace la torre
un'ora
implacata,
a
fronti
deserte,
svariandovi
a fredde chiarità di cieli,
ancora
, recedendo,
il
volvere interno di pagine
nell'ombra
consunte,
oltre
i vetri, ai voli radenti,
soggiacendovi
a schianti
d'ali
inesausti.
In
memoria di Gino Baratta
Sul
davanzale della sua stanza d'ospedale
gli
ultimi suoi libri aperti interminabili,
quando
l'inesorabile più non ci distanzia
nella
sua mente che mi discorre intanto
come
eterna,
come
nella notte che lasciò ogni altro
per
parlare con me solo di Egon Schiele.
Ed
ora ch'egli non è più che il suo sfacelo
così
intendo ricordarlo vivo.
1985-86
L'apertura
dei cieli ravviva la luce del verde
L'apertura
dei cieli ravviva la luce del verde,
ma
spenta è nel canto la rosa,
e
le malinconie dal cortile ascendono a voci bambine,
eppure
traspira
l'aria
più fresca,
gli
uccelli echeggiano grida,
sfrecciano
in voli nello squarcio d'azzurro.
E
tu respira lo sgorgo di pace.
1988
E
con il giorno declini nell'appassire di rose
E
con il giorno declini nell'appassire di rose,
all'attenuarsi
nel fluire di vampe,
infrescandone
acque di vita
l'esalare
fragrante a estenuarsi,
la
quietudine
in
parole e petali pervasi
luce
in un canto senza tempo.
Il
puro sovra i deschi dei colori assorti
Il
puro sovra i deschi dei colori assorti
abbaglia
gridi e voci nell'incantamento,
lenta
la luce nell'intenebrarsi,
-
gli uccelli cantano un desiderio eterno,
l'azzurro
gorgo un'infinita morte.
1988
E
per l'incanto di rose nella spoliazione
E
per l'incanto di rose nella spoliazione
si
luminò la polvere nel sole,
fu
al limpido erompere dai vasi
che
l'intristimento decantò la pena,
e
nel gridio d'uccelli si confuse il sangue,
il
rodìo l'arioso fu d'intorno,
-
il respiro il vento alle finestre aperte,
nel
rintocco di crepitante verde
al
celebrarsi di luce e di lucenti smalti.
Eppure
le schegge in gemme s'inteneriscono
Eppure
le schegge in gemme s'inteneriscono
da
che tu palpiti a un vessillo,
ne
trabocchi nell'effervescenza,
ti
mischi ed affanni nel deliquio
-
quando il fresco vento, la vittoria su un campo
entro
l'aperto che infinita gioia
(è
all'agone di un gioco nell'infinito perdersi.
Cresce
la luce nei cieli in stanza
Cresce
la luce nei cieli in stanza,
palpita
nelle foglie,
si
ravviva nei petali,
vedili
i boccioli intenti
fulgide
anime offerentisi in flosculi,
aneliti
a persistere vibranti
fino
a che li attenua 'ombra che addensa.
Altro
vento sterpa i rami
Altro
vento sterpa i rami,
precipita
le foglie di una resurrezione stenta,
è
una convulsione che invoca la fine di ogni fiorita,
che
l'indolenza sia un'agonia,
la
Mente, al suo trapasso,
che
s'apprende ad un'anima così bambina,
la
sola sulle soglie delle sue rovine,
eppure
se accanto mai non udrà il suo passo
laddove
appena sola è carcerata dentro.
E
ripercorre disperando le annerite volte
che
volitano pipistrelli dibattendo il torto,
delle
necessitudini riascolta la desolazione attonita,
in
grida, e spregi,
ella
implacando l'abominio.
Al
chiedersi, nei suoi sudari,
come
la sentenza si revochi ancora.
E
così tu giorno dopo giorno,
E
così tu giorno dopo giorno,
pagina
dopo pagina,
volto
il margine ti annienti.
1989
Ascolta
l'assenza di voci tra i rami
Ascolta
l'assenza di voci tra i rami,
la
disperazione che nemmeno s'articola,
la
tua pena, che tacita mente,
per
la sconsolazione che tutt'è perduto,
quando
lenisci in miele l'orrore,
ti
fai docile al dente che affonda,
e
così reclini perché così soltanto
negli
interstizi ancora persisti.
1990-
1998
Che
ti insanguini?
Che
ti insanguini?
Se
in una rosa appena
ne
sfiori le guance.
Se
ti riaddensi
la
tua memoria ne è lo scrigno del volto,
reclinano
i tuoi atti sul suo profilarsi,
tu
ne sei tutto
l'anelito
morto nel vuoto aperto.
1990
A
udirlo, ogni istante,
A
udirlo,
è
ogni istante
l'urlo
e il gemito nell'attonito incanto,
puoi
sentirvi, inesausto,
nel
musico canoro un demone che canta,
fino
allo smorzarsi dell' accordo che proroga
in
una lattigine di strenua pena.
Nel
vagito e il rantolo, tra il respiro e l'ansito,
quando
si digita il tasto, si leva l' accento,
si
accinge la ciotola
di
una vita migliore.
E
dal vividio di nuovo ti è invasato il
sangue
E
dal vividio di nuovo ti è invasato il sangue,
in
occhi che non sono
più
che occhi di carne,
nel
silenzio non senti che rumori e grida,
che
il fortore della crescita in agitazione,
la
mente che non è più capace della destinazione,
l'immaginazione
nella sua mania che di immaginare gli idoli,
nella
tua notte, solo con te stesso,
tu
così invecchi senza più disperarti,
-
ora che per la virtù di una magia tecnica,
senza
più tue forme, e una tua forza,
arresti
immagini e suoni a un tuo comando,
ne
obblighi i simulacri a riesibirsi.
Così
in impulsi che ti illudono l'energia di Luce
tu
incanti il deperirti,
ti
reincarni nella finzione di una presenza viva.
Che
il desiderio fosse così domita preda
Che
il desiderio fosse così domita preda,
e
senza che la disperazione abbia più forza
tu
inoltrassi ogni giorno il collo inesausto,
è
nel corpo di un'energia che svasa desolata
più
ancora la morte che ti assicura il domani.
Quando
i rami rinverdiscono invano
Quando
i rami rinverdiscono invano
tu
non attendi che il novembre
della
tua spoliazione
nella
linfa per le fibre che ancora risale,
finché
l'incenerirsi di strade dismesse
sia
a te la perdita il grigiore dei cieli.
Poiché
l'animale che declina ed è inesausto
pure
demorde, nella marcita,
vanificandosi
che ciò ch'è superstite
non
è più che la fame di pesci di fogna,
allo
sfogliarsi di memorie
il
fulgore e l'oro dell'estate
l'abbocco
nell’ estasi del crudo orrore.
Così
tu mortificandoti nell'occlusione,
impallidendo
rasente i muri.
1992
Novembre- Aprile 1993
Al
cessare dei turbini della Rosa dei venti
Al
cessare dei turbini della Rosa dei venti
è
sul litorale dispoglio di miraggi inesausti
che
nella terra di Nessuno tu riscopri l'approdo,
ove
ripullula l'orrore i sensi dei sogni
ad
una desolazione attonita che brama la morte.
Ma
al flutto, che traluce,
eppure
ansimi d'azzurro,
risente
la carne l'ardore cessato.
E
gli occhi nel vuoto ricercano il vivido,
fra
i rovi tu ancora ti insanguini.
1991
Ma
al flutto che traluce
Ma
al flutto, che traluce,
eppure
ansimi d'azzurro,
risente
la carne l'ardore cessato.
E
gli occhi nel vuoto ricercano il vivido,
fra
i rovi tu ancora ti insanguini.
1991
Da
quanto tempo ( frammento)
Da
quanto, oramai,
anche
se vai raccogliendo
l'ultima
briciola impura,
più
non riservi un posto a tavola.
E'
così, ti dici,
quando
s'incrina ogni rintocco.
Ed
all'uccellino che svetta su cuspidi e torri,
alla
banderuola ch'é dibattuta
in
lamine d'argento,
non
si ridesta l' assopito.
E
disfi e rifai, ancora ti obblighi e ti attieni,
così
accudendo
l'estenuazione
interminabile nel tempo,
da
che non v' è nerbo che sotto la sferza,
ed
al ventilabro, di ogni giorno,
solo
superstite è la pula,
se
all'allentarsi della fibra ritorta
non
vi sono più parole per il canto di gioia,
e
la palpebra cerca solo lo spegnersi.
Eppure,
se Egli è,
è
il selciato di tutte le strade,
tutte
le piazze ne sono gremite,
è
l'acqua in ogni porto di ogni mare
il
chiuso che ripercorrono i tuoi passi,
quando
nella tarda tua ora morta
tu
diserti l'anima e l'impulso
nell'
adempimento di una continua fine,
a
ogni nuovo giorno che si riaffaccia
reimpastando
una focaccia di triti doveri
a
che non lieviti l'anima in fermento,
nel
vaneggiamento ancora tra i tuoi sudari
di
una mortalità che vi dibatta l'ali.
Dicendoti
che di quanto esala nell'oscurità del vivo,
anche
nello stillicidio che si fa ruggine negli scolatoi
eppure
nel bicchiere più acre di feccia
è
l'adorazione che ricolma la grazia nei vasi.
......................................
1994-95
Note
1)
" Bagliori e incanti" segue ad " Acanti ed Asfodeli" e
precede nell' editing "
Invasamento e annientamento", in cui sono venuto raccogliendo le poesie
cosmopolitico-civili coeve a tale raccolta.
2)
"Da quanto tempo" è una mia visione giudaica.
Traduzioni
Shakespeare.
Sonetto 73
Quel
tempo dell'anno in me puoi contemplare
Quando
foglie gialle, o nessuna, o in poche pendono
Da
quei rami contro il freddo che si scuotono,
Nudi
cori desolati, dove i dolci uccelli cantano tardi.
In
me tu assisti al crepuscolo del giorno
Quale
dopo il tramonto svanisce in Occidente,
E
a poco a poco la nera notte lo sottrae,
Gemina
della morte che tutto in se suggella.
In
me tu assisti all'estinguersi del fuoco,
Che
sulle ceneri della sua giovinezza si protrae,
Come
sul letto di morte del suo esalare,
Ora
che lo consuma ciò che un tempo lo nutriva.
A
questo tu ora assisti, che rende il tuo amore più ancora forte,
Amando
al meglio, chi tu devi lasciare dipartirsi.
Da
Wallace Stevens.
Mondo
senza peculiarità
Il
giorno è grande e forte,
ma
anche suo padre era forte, che ora giace
nella
povertà della polvere.
Niente
può essere più quieto che la via
Che
la luna trascorre traverso la notte.
Ma
ciò che gli era sua madre ritorna e piange nel suo petto.
Il
rosso rigoglio delle foglie circolari[1]
è gonfio
delle
spezie della rossa estate.
Ma
lei che amava si fa fredda come lieve la tocca.
A
che serve che la terra sia giustificata,
che
sia completa, che sia una fine,
che
in se stessa sia abbastanza?
Ma
è la terra che è l'umanità,
Egli
è il figlio disumano e lei,
Lei
è la madre fatale, che lui non riconosce.
Lei
è il giorno, il cammino della luna
tra
le spezie silenziose, /e/ talvolta,
Lui,
pure, è umano e scompare la differenza.
E
la miseria della terra, la cosa che gli grava in petto,
l'odiata
donna, il luogo insensato,
divengono
una cosa sola, sicura e vera.
L'uomo
d'inverno
Si
deve avere un animo d'inverno
Per
fissare il gelo e i rami
Dei
pini incrostati di neve;
Ed
essere stati lungamente freddi
Per
guardare ai ginepri spinosi di ghiaccio,
Ai
ruvidi abeti nello scintillio distante
Del
sole di gennaio; senza pensare
Che
vi sia miseria nel suono del vento,
Nel
suono di poche foglie,
Che
è il suono della terra
Invasa
dello stesso vento
Che
spira nello stesso luogo nudo di sempre
Per
chi è in ascolto, che ascolta nella neve,
E,
nulla egli stesso, riguarda
Il
nulla che non c'è e il nulla che è.
Debole
sempre più debole
Da
Wallace Stevens
Debole
sempre più debole, il sole cala
nel
pomeriggio. I fieri e i forti
sono
scomparsi.
Quanti
sono rimasti sono i manchevoli,
i
finalmente umani,
nativi
di una sfera diminuita.
La
loro indigenza è un'indigenza
che
è indigenza della luce,
un
pallore stellare che pende dai fili.
A
poco a poco, la povertà
dello
spazio d'autunno diviene
uno
sguardo, appena poche parole.
Ogni
persona ora ci tocca pienamente,
con
ciò che egli è, e come è,
nella
grandezza spenta dell'annientamento.
Il
corso di un particolare
Oggi
gridano le foglie, pendenti sui rami che agita il vento.
Ma
la nientitudine dell'inverno si fa ancora di meno,
E'
più ancora pervasa di ombre diacce e forme di neve.
Gridano
le foglie...Ci si tiene distanti, e solamente si ode il grido.
E'
un grido intento, che assilla qualcun
altro.
E
benchè si dica che si è parti di tutto
V'è
disparte, è inclusa a ciò una resistenza,
Ed
essere parte è uno sforzo che declina,
Si
sente la vita che dà la vita così com'é.
Gridano
le foglie...Non è un grido di attenzione divina,
nè
l'esalare di eroi spenti, nemmeno è un grido umano.
E'
il grido di foglie che non trascendono se stesse,
in
assenza di fantasia, senza che significhino più
di
quel che sono nell'apprensione ultima dell'aria, nella cosa
in
sé, fintantochè, infine, il grida non assilla più nessuno.
Odorico
Bergamaschi
Bagliori
e Incanti