Per il giardino

 

 

 

 

 

 

 

 

Per chi tra voi tuttora lo ignorasse, *** è indubbiamente uno dei paesi più belli e più evoluti delle nostre contrade , checché ne pensino anche molti dei circa duemilacentoventi miei concittadini, suoi abitanti, ancora profondamente convinti che negli abitati maggiori tutto sia più bello, e la gente meno incivile e più progredita.

A differenza infatti dei vari centri limitrofi, chissà come sghembi o polimorfi, il mio paese ha una sua consapevole  fisionomia caratteristica, con il gregge delle  case raccolte attorno all'alta pieve bisecolare, la cui così rustica imponenza come vi è ancora ad ergersi proterva, a strenua raccolta della superstite cristianità campestre.

In un'innegabile sua ruvidità di modi, giusto è l'opposto, nel suo cotto, di certe chiese sue mondane coetanee, che in strabocchevoli fogge barocche, o più ancora rococò, nelle città ostentano tutt' un altro modo di intendere la fede, di quello della sua rustica pietra così calda.

E come le vie se ne diramano, fluenti, lungo i sinuosi corsi delle sue rispettabili case, per dilungarsi fino a ricongiungersi poi tutte, ordinatamente, agli incroci che le convogliano  verso le strade d' accesso principali.

E lungo la via che reca a ***, delineandovisi in tutta la sua magnificenza, s'erge villa ***, la nostra piccola Versailles, quanto seicentesca, e maestosa, nella solenne fronte che offre allo sguardo.

Certo, anche se l'agricoltura ivi è fiorente, e le scarse industrie  non risentono più della crisi, nel mio paese è pur presente la miseria sociale.

Ma né lo stato di relativa salute economica, né le sue irrisolte questioni materiali possono farmi dolere di meno per quanto con voi mi lamento, che in un paese eppure altrimenti così confortevole, manchi tuttora un bene pubblico che fa la felicità di quasi tutti gli altri abitati, un bene che solo della gente davvero superficiale, può considerare un che di inessenziale : il sommo bene di un giardino pubblico.

*** è un delizioso paese di campagna, infatti, senza neanche un filo di verde civico. Ma ve l'immaginate una donna, per usare un'immagine indiscreta, che in alcuna parte del suo corpo non ha vello?  Appunto, così è per ***.

Certe volte, d'estate, quando il sole picchia sulla piazza spopolata e sulle case,  sembra di esservi in Arizona o nelle Pampas, anziché in una fertile plaga operosa della Bassa Padania.

Figurarsi, poi, che quando è chiusa la Biblioteca civica, non rimane che il bar quale luogo di ritrovo, giorno e sera nient'altro che le sue sempiterne sale sino a notte fonda.

Ora c'è chi non trova niente di meglio, in ogni caso, che trascorrere al bar tutto quanto il proprio tempo libero. Benissimo, ciò. Il bar è per davvero un luogo incantevole! Com'è delizioso, la sera d'estate, contemplando un cielo limpido di stelle, sorbirvi una squisita granita a tavolino, magari con le amarene prelibate! Davvero delizioso! Solo, che ciononostante, non è raro il caso che vi si soffra.

Al bar non ci sono per lo più che degli uomini e dei ragazzi; e i bambini e le donne? E le nature più delicate e riservate? Ci vengono solo qualche volta e di sfuggita.

In quei locali, pieni di fumo, gli uomini vegetano e s'invigoriscono in tanti ruvidi arbusti spinosi e secchi, inesorabili soffocandovi, ove rigermini, ogni più trepido  germoglio infantile o femminile. Come allora lamentarsi, se al bar alla fin fine ci si annoia tanto?

Quante volte mi è capitato, nel sentirvi gli uomini perpetuamente discorrere delle stessissime cose nei medesimissimi termini, i loro termini avvilenti, beffardi di tutto quanto non vi sia nella vita di brutale, di avvertirvi qualcosa di amaro, dolorosissimo, nella sua morsa stringermi la gola, come l'eccelso Zarathustra sentì quel mostro scendergli in gola e soffocarlo, apparendomi, sconsolato, che allora sia del tutto vano, sotto le stelle, tanto erratico nascere e trascorrere e morire di noi uomini.

E' in quegli estremi, che sulla mia bicicletta, mi è di conforto  solo l'inabissarmi  entro la notte, sotto le più sfavillanti stelle nel folto del mais.

Le loro luci in cielo, le lucciole errabonde per i campi,- per le stesse oscure vie, anch'io ramingo ciecamente...

 

 

 

E’ dunque evidente già ai miei casi, appurato e incontroverso, che il mio paese ha bisogno come della vita di un luogo di  ristoro, che ingentilisca l'animo con verdi ombre, riposanti, e i canti d'uccelli e i più soavi aromi, infine liberi in esso d'incontrarci noi tutti pubblicamente, senza più certi patemi d'intrusione, indelicata, nelle altrui intimità familiari più riservate.

Un luogo d'accoglimento di giovani e d'anziani, di donne e d'uomini e bambini, con tanto verde, ma tanto: appunto un luogo non altrimenti, celestiale, che un pubblico giardino. Ove ugualmente uno possa appartarsi, solitudinario, immerso nei propri pensieri o in letture incantevoli, senza figurare per questo uno sdegnosissimo snob.

 

 

 

 

 

Se poi uno non è un piazzaiolo, ma viene in paese dalle frazioni o dalle campagne, come si dà pur sempre nel mio caso, e non vuole intromettere il suo naso indiscreto nelle case altrui, a differenza di come ve lo ficcano quanti dei miei compaesani, al bar non ha altre alternative che la strada. Ed infatti, i fanciulletti forestieri, che vengono non solo a chiacchierare con le nostre ragazze, li vedo sempre a crocchi nelle strade, appollaiativi ai bordi sui loro motorini, come tanti pappagalli sui loro trespoli.

Ora non è, con questo, ch'io ritenga che si debba avere in orrore la nuda strada.

Quante volte, non so dirvi, specie nei giorni di maggio più luminosi, vorrei trascorrervi tra gli uomini, o per i verdi campi, come anticamente trascorreva Socrate tra gli Ateniesi, nelle tante sue passeggiate in campagna fuori delle mura di Atene, aperto all'accoglienza di ogni donna, o uomo o bambino, che solo intendesse parlarmi con amicizia; e sulle rive di un novello Ilisso, magari del nostro canale d'irrigazione, od all'ombra, se non di un alto platano, di un umile pioppo padano tra i coltivi, discorrere di semplici cose sublimi, purché ci sia ombra e lieve brezza, e un praticello fresco per sdraiarsi.

Così con ***, un ragazzo che per me è certo il più caro degli esseri viventi, adagiati presso l'acque o su un bel prato, parlerei interminabilmente del problema del senso della vita, o del suo conclamato bisogno di una sobria esistenza.

*** infatti, con la bellezza della sua figura, il tono amico e confidente della sua voce, e la luce a me cara del suo sguardo, può vantarsi di esercitare su di me un vero sortilegio; il sortilegio di irretirmi proprio in quei grandissimi problemi, che altrimenti, mi si presentassero essi da soli, pur se usando loro la più formale cortesia, metterei alla porta di filato, con che visibilissima irritazione. Alle loro spalle sibilando tutto il mio disprezzo. La ricerca di un senso entro le cose... quasi non fosse la debolezza dello spirito "par excellence",... Una vita sobria... oh, l'ideale ascetico! La Circe indiana... Come se io credessi al suo buddismo! Lui vuole incantarmi, di sicuro!... Poi con le ragazze, tutta un'altra musica!...

Ma lo so bene perché sto già adombrandomi...

Credo piuttosto che a tal punto qualche mie concittadino, che ben sa, con quale aria disdegnosa, procedo in bicicletta o a piedi per le vie  del paese, facendomi inaccessibile quasi che vi fossi una divinità in incognito, esiliatavi tra degli uomini che sdegna nelle loro consuetudini, all' udire di tali mie propensioni resterebbe come l'uom di sasso, a bocca aperta, il fiato mozzo!

" Oh, questa è bella davvero!" tra sé direbbe trasecolato" Dunque egli andrebbe incontro a tutti! No, non l'avrei mai e poi mai immaginato! E a facilitargli ogni difficoltà d'incontro, viene a dirci, gli mancherebbe solo il verde di un giardino, con tanti prati intorno dove sarebbe meglio che andasse a sciamare o a..."

O forse qualche altro mio concittadino riderebbe, tra sé di gusto, dell'aria baggiana con la quale, il più delle volte, mi apro esageratamente verso tutti, allora inavvicinabile, per davvero, dalle persone che incauto saluto.

Tant'è l'imbarazzo che suscito in loro...

 Mah! E' vero senz'altro ch'io sono un maleducato, e che spesso gli altri non li saluto apposta, anzi, che a volte, appena li intravedo, compio i più oziosi prolungamenti del mio già ozioso cammino, pur di non avere ad imbattermi in certe loro presenze; ma è pur vero che anche le poche persone che mi salutano, mi sembra che lo facciano sempre così malvolentieri, quasi come per uno sgradevole compito d'ufficio, che mi è un autentico sollievo, in tali frangenti, ogni volta liberarli di una simile incombenza.

CHe dirvi, perché mai, io sia una persona così ostica anche al saluto. So di certo che con gli uomini mi è difficile tutto.

Dicono sia un segno d'elezione. Mah!

Di sicuro io vago per il paese come un pazzo, un perdigiorno, la testa immancabilmente sempre per aria, spersavi, tra il daffare degli altri, come in un sogno fantastico di ninfe e driadi; uno con la faccia dell'idiota e dei titoli di studio, per altisonanti che siano, che lo accreditano soltanto come un' inutilità sociale, insopportabile, inspiegabile...

Quand' ecco, forse, che cosa io figuro in definitiva per le strade: un cane umano, un ibrido strano fra i cani miei amici.

I cani ed i bambini, essi soltanto, sono le persone con le quali io comunico per davvero; solo che i bambini, facendosi grandi, mi tradiscono poi tutti; i cani invece no. Come animali non umani, seguitandomi  a concedermi sempre di nuovo il loro sguardo solo per giocare, caldi di vita e di una dedizione continua.

Forse, a volte, un po' troppo servili alcuni di loro nell'abbaiarmi contro.

Ed anche per loro, quanto c'è bisogno del giardino!"

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma  debbo dolermi, purtroppo, che sia l'Amministrazione vigente, che l'opposizione, non abbiano minimamente avvertito, nei loro programmi, questa esigenza di un giardino. Il che è davvero inescusabile insensibilità.

E non già perché un "polmone verde" ci vuole pur sempre in un organismo abitato, non già per aride ragioni di fisiologia urbana; ma perché il giardino, da sempre, è il luogo più ideale della felicità umana, il sacrario di quella età dell'oro, che  da sempre, nei nostri cuori è perduta e giace rimpianta;, nella nostalgia di quando* , canta l'elegiaco poeta latino, stillavano miele dolcissimo le querce, e germogliava la terra spontaneamente i frutti e le messi; gli uomini felici, assolti da ogni fatica e ogni dolore, per i campi lievi danzando e facendo l'amore, luminosi librando i corpi nudi.

 

 

E tale sogno non ci richiama forse i dipinti della gioia di vivere, del più felice dei pittori moderni?  Ove uomini e donne fra il verde liberamente ignudi, fusi insieme con la natura, serenamente danzano e suonano flauti, colgono fiori e se ne adornano, intrecciano i loro corpi nell'amore o in girotondi, o voluttuosi giacciono nell'erbe trasognanti. Quant'è bello, non è vero?

I Campi Elisi stessi, dei pagani, non erano forse un interminabile giardino, sconfinato quanto la Natura? E nella loro artificiosità selvaggia all' inglese o nella geometricità francese, i giardini moderni che sono mai, se non Campi Elisi in miniatura?

Ecco così rifulgere la ragione suprema, in effetti, per la quale un paese non può non avere un suo giardino, essendo il giardino, appunto, il sembiante vivente del Paradiso, di quella serena felicità che tutti, nella nostra vita, almeno una volta abbiamo sognato.

Oh, i giardini di delizia di ogni Persia, ove nell'ardore, tra i roseti, cantano l'acque sotto riposanti palme, e chiari pensieri, nei peripatetici, sgorgano lievi all'ombra dei minareti...

Od i giardini d'amore, incantate lusinghe, di Torquato Tasso o dell'Ariosto? O  quelli melanconici ardenti nell' arte rinascimentale?  Dove mormoranti ruscelli e ombrose fonti, i più puri e liquidi cristalli, rigano praticelli soavi di bei fioretti adorni, azzurri, gialli, candidi, vermigli; per un di più d' incanto d'intorno modulando le loro lascivette note, gli uccelletti maliosetti tra le sensuose fronde...  

A simili verdi incanti, io dico, un paese come può ancora esistere senza un suo grazioso giardino, che ispiri agli uomini letizia e gentilezza, pensieri più soavi di colombe?

Pensateci: un giardino ove gli uomini miticamente riposano nudi,

non può essere un luogo d'odio.

Vi faranno inevitabile armistizio le passioni guerriere.

Un giardino ove a gola spiegata gli uccelli cantano, non può essere un luogo di morte. Chi mai potrebbe gettarvi la sua vita?

Un giardino ove l'erbetta sospira al venticello più lieve, e i cani scherzosi giocano con le farfalle, non può essere agli uomini che un luogo di pace.

Un giardino! Oh, non mille, ma millanta ragioni depongono a favore del suo splendore.

Ogni sapienza depone in suo favore, ogni voce, più alta, che non sia quella del bruto calcolo o del dispietato interesse.

E forse, che con questo, verrei ad accreditare in qualche modo che il giardino è un luogo incantevole sì, ma purtuttavia per le più fragili anime inette?

Ma un giardino non è affatto un luogo  del genere, non è affatto solo la gratuita delizia di anime semplici, come possono credere certi uomini serissimi senza fronzoli o scrupoli.

Quell'aureo filosofo dell'antichità  di nome Epicuro, persa ogni sua fiducia nelle Leggi e in ogni Commercio, dove cercò rifugio dalle chiacchiere della politica e delle vane lotte umane, per poter infine vivere, come gli dei, della più pura gioia di esistere? Non altrimenti che nel Giardino.

E già i filosofi platonici, ditemi, ove si ritiravano a meditare sempre più vanamente, su come fare dell'uomo un cittadino? Nel giardino dell'Accademia dei loro sogni tristi. Ed il giardino, nel Rinascimento, era il luogo ove si ritornarono a vagheggiare, con le nuove arti, le virtù umanistiche dei più sublimi ideali.

Lo stesso Cartesio, quell'eccellentissimo spirito razionale, sapete voi come lo trascorreva il tempo suo, quando di lui la mente non era affaticata a tradurre in quantità e numeri, e figure, le più ordinarie apparenze del mondo d'intorno ? A differenza di quel che si creda, conducendo la mente trasognata in silenziosi boschi, o per i giardini dei più splendidi palazzi incantati, intento a contemplarvi le amenità di un boschetto e i colori di un fiore, o il volo divagante di un uccello in cielo, fino a non pensare infine più a niente. E Rousseau, il fantasticatore solitario!

Ma che vado citando testimonianze ulteriori? Perché più parole? L'amore della vita non è forse più che bastevole argomento?

Ma di tali e tante ragioni di filosofi ed artisti, che sgorgano dal medesimo esistere nel suo incanto più alto, che ne dicono i signori Amministratori? Ora è vero, che da parte per l'appunto di Voi eletti vincenti, si è parlato di creare uno spazio pubblico per ospitare i circhi vaganti e mostre agricole stabili; ma pure se è un'interessantissima proposta, non è precisamente quant'io propongo; riguarda infatti anziché un giardino, un semplice spiazzo di asfalto e catrame, non già, come si dice,  un'"area verde d'uso pubblico", con tanto d'alberi, di aiuole, di rinfrescanti fontane e di panchine riposanti, ma cementificato un suolo spoglio , attorno al cui progetto, per il momento, non attecchisce che il sospetto che possa lussureggiarvi tutt' altra speculazione che la filosofia... Che ne dicono, dunque, i nostri signori Amministratori?

 

 

Di un bel giardino tutto nostro, festoso di uccellini e di bambini, così come già me lo immagino possibile, certo, piccolo ma bello, con i suoi sentieri di ghiaietta minuta, e verdi tappeti ove liberi si tuffano i bambini, un giardino dove all'ombra dei tigli, sulla stessa panchina, un giovane legge il suo giornale, e l'anziana signora lavora a maglia conversando, o animatamente discutono un giovane ed un bambino, e un vecchio li ascolta ed interviene, un giardino magari con aiuole in miniatura, ma vivaci di colori e profumate; un tale giardino non è un sogno di quelli che addolorano soltanto, ma a tutti gli effetti, il meraviglioso incanto di una possibilità reale.

Una possibilità reale?... Se la mia voce solo nel dirlo già si  incrina, e le si offusca il seguito della parola ulteriore,  sia sin d'ora cura, delle forze civili, che un giardino abbia a sorgere, finalmente, nel cuore di pietra e asfalto del nostro paese. Che in me, già nella loro eco, le più fervide parole più non suscitano energia d'azione, ma un bianco silenzio che tutte le consuma. E dov'era entusiasmo, speranza, ardore di mete, ora non è più che il candore di un abbaglio. E sassi, sterpi e ceneri già candiscono, ove il verde più fervido già come brillava del mio giardino!...  

 

 

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