Carlo
Saccone has supplied [below] his presentation for inclusion on this website.
In
the meantime, we have added to our Research Archive a translation of the
Postface which he wrote for his edition of Il Libro della Scala,
dealing with the origins in Islamic writings of the legend of the "heavenly
ascent" (mi'raj) of the Prophet Muhammad. He details the history
of the scholarly controversy about the relevance of this tradition to Dante
studies.
The article can be accessed at http://www.geocities.com/dantestudies/mi'raj.html
http://www.geocities.com/dantestudies/cs1.html
Tipologia
dei Mi’raj: la “scala” del paradiso nei mistici e filosofi
del’Islam
di
Carlo Saccone (Padova)
Il
tema del mi’raj com’è noto è al centro della mistica islamica e
di tanta parte della letteratura religiosa espressa nelle varie lingue
dell’ecumene musulmana: arabo, persiano, turco, urdu, malese per non citare
che le più note e diffuse. Ho detto letteratura, al singolare, e non
letterature, perché – come non si stancava mai di segnalare Alessandro
Bausani – ci troviamo di fronte
a una cultura letteraria composita ma fondamentalmente unitaria, quantomeno
per il periodo che parte dal X secolo e giunge sino alle soglie dell’età
contemporanea.
Il
fattore unificante non fu solo quello religioso, evidentemente; gran parte vi
gioca l’elemento linguistico arabo o meglio arabo-persiano.Il persiano è già
una tipica lingua batarde, in cui su ceppo indoeuropeo si innesta un lessico
semitico, ossia l’arabo di coloro che conquistarono la Persia a metà del
VII secolo. Il persiano così formato, o neopersiano, diventa la nuova lingua
letteraria dei popoli iranici a partire dal X secolo e trova già nel Libro
dei Re del poeta epico Ferdowsi il suo primo universalmente conosciuto
capolavoro. Ma, a partire dall’XI secolo, i sovrani d’Iran si lanciano a
est in una grande campagna di conquista dell’India, il cui leggendario
artefice fu il sultano Mahmud di Ghazna, sovrano di origini turche in realtà,
che porta stabilmente sotto il dominio musulmano la valle dell’Indo
corrispondente a gran parte dell’odierno Pakistan. E già dall’XI
secolo troviamo autori persiani che gravitano intorno alla corte di Lahore;
più tardi, agli inizi del XIII sec., a partire da una ulteriore estensione
della campagna di conquista, viene fondato il sultanato di Delhi, poi
incorporato a partire dal ‘500 nell’impero dei Moghul, e Delhi sarà fino
all’ ‘800 il centro indiscusso della letteratura persiana d’India.
Ma
anche più a est sarà, nel Bengala, troviamo un florido centro di lettere e
cultura persiana, che conoscerà addirittura un revival nel XIX secolo:
sappiamo ad es. che il padre del celebre poeta bengalese Rabindranatah Tagore
scriveva correntemente e pubblicava saggi di critica letteraria in persiano.
Il persiano fu poi la lingua letteraria per eccellenza alle corti
dell’impero ottomano, ove la figura del poeta bilingue, in grado di scrivere
indifferentemente in turco o in persiano ( e spesso magari anche in arabo) era
la regola. Conosciamo anche appendici europee: ad esempio nella Bosnia e
nell’ Albania ottomane, si poetava in persiano oltre naturalmente che in
turco.
Ci
troviamo di fronte insomma a una grande e unificata civiltà letteraria, che
si eprime in più lingue, e che ha nella tradizione poetica persiana il suo
fondamento. Tale tradizione fornirà in tutta questa vastissima area fino
all’ ‘800 modelli e generi letterari, stili e canoni estetici. La
letteratura turca ottomana da un lato, quella in urdu o indostano, la lingua
letteraria dell’India musulmana dall’altro, sono incomprensibili senza
presupporre questo rapporto di osmosi con la tradizione poetica e
retorico-linguistica persiana. Ho detto anche linguistica perché come il
neopersiano è abbondantemente infiltrato dal lessico arabo, così a loro
volta il turco ottomano e l’urdu hanno una base lessicale
arabo-persiana, un po’ come in un gioco delle scatole cinesi. Sicché a ben
vedere, neopersiano, turco e urdu, pur partendo da ceppi linguistici
assolutamente diversi come sono l’indoeuropeo e il turco-mongolo, nondimeno
sono lingue contigue che utilizzano una larghissima base lessicale comune.
Quello che veniva prodotto nella grande fucina della letteratura persiana,
quasi automaticamente si travasava nel giro di pochissimo tempo nelle attigue
fucine della letteratura ottomana e urdu-indostana. Temi e motivi, personaggi
e cliché letterari della poesia persiana si ritrovano pari pari nelle
tradizioni poetiche delle altre due letterature sorelle.
1.
Il mi’raj
Un
caso tipico, e qui ci avviciniamo all’argomento del convegno, è perlappunto
la letteratura del mi’raj. Il viaggio di Maometto nell’aldilà,
inizialmente ripreso da alcuni spunti coranici, viene in un primo tempo
rielaborato dalla tradizione religiosa (hadith). E’ qui che si forma
la vulgata del pio racconto che in breve è questa.
Maometto
è svegliato di notte da Gabriele che lo fa salire su un cavallo alato col
quale il profeta, sempre in compagnia di Gabriele giunge al tempio di
Gerusalemme; qui egli prega con i profeti biblici, e poi, uscito dal tempio
s’inerpica per una scala dorata sino al primo cielo, quindi sale di cielo in
cielo fino all’Empireo dove è ricevuto da Allah. Trova strada facendo il
tempo di colloquiare con personaggi biblici e angeli e alla fine di visitare i
gironi infernali e i giardini del paradiso; quindi ritorna alla Mecca dove
narrerà il tutto ai suoi increduli concittadini.
Questo
“canovaccio” viene ripreso e in vario modo rielaborato dalla tradizione
letteraria araba, popolare e colta, quindi travasa prima nella letteratura
persiana e poi, per suo tramite, nei “vasi” attigui turco e indostano. Così
troviamo numerosissimi mi’raj-name, sia in prosa che in versi,
scritti in arabo, in persiano, in turco, in urdu per non parlare delle altre
numerose lingue minori dell’ecumene musulmana. Alcuni sono semplici
trasposizioni e riadattamenti dei dati forniti dalle scritture scare, altri
vere e proprie raffinate rielaborazioni, spesso racconti allegorici che
possono mantenere con il prototipo sacro un legame anche molto tenue. E’ il
caso dei mi’raj-name scritti in persiano dai poeti mistici
Sana’i e di ‘Attar, ad esempio, oppure dei due “mi’raj-name”
un po’ particolari, scritti in arabo, da due filosofi di madrelingua
persiana, Avicenna e Sohravardi. Si tratta precisamente del Hayy ibn Yaqzan
("Vivens filius Vigilantis") di Avicenna e del Qissat
al-ghurbat al-gharbiyya ("Racconto dell’esilio
occidentale") di Sohravardi, due testi ben noti anche al di fuori della
cerchia degli iranisti e degli islamologi grazie all’ampia e acuta indagine
che su di essi ebbe a compiere Henry Corbin in vari suoi scritti.
Ho
scelto di parlare di questi quattro mi’raj-namè perché, mi sembra,
riassumono e esemplificano molto bene la tipologia dei viaggi nell’aldilà
prodotti a partire dall’archetipo sacro, il mi’raj di Maometto, e
perché essi, per la loro collocazione temporale (XI-XIII sec.) furono in
qualche modo esemplari per tutta la produzione successiva nella vastissima
area sopra delineata.
In
un mio precedente lavoro sull’argomento, avevo messo in evidenza come il
viaggio archetipico di Maometto si sviluppi attraverso due assi spaziali, uno
orizzontale e uno verticale. Prima abbiamo un “viaggio notturno”
(detto isra’) dalla Mecca a Gerusalemme che è puramente orizzontale,
l’ “ascensione” vera e propria (il mi’raj in senso stretto)
viene subito dopo e evidentemente si svolge luno l’asse verticale, dal
tempio di Gerusalemme a un tempio celeste, il misterioso Tempio Ultimo alluso
dallo scarno dettato coranico. Nel lavoro citato cercavo di evidenziare due
rami o “filiere” di derivazioni: una serie di testi riprendono e
sviluppano appunto l’aspetto o dimensione verticale, con la narrazione di
viaggi che si svolgono essenzialmente sulla superficie terrestre,
un’altra serie – di cui dobbiamo oggi occuparci più da vicino –
privilegia invece l’altra dimensione, quella orizzontale appunto, e sviluppa
insomma il tema del viaggio al cielo.
Si
potrebbe obiettare che il legame dei testi derivati appartenenti alla prima
serie, l’orizzontale, con il prototipo sacro appare alquanto debole. In
effetti, però, si tende spesso a dimenticare che il mi’raj di
Maometto così vcome ci è stato trasmesso dalla tradizione scritturale è
diviso in due parti ben distinte: esso non è soltanto una “scalata” al
cielo. Il termine “mi’raj” in una accezione più stretta designa
senz’altro l’ascensus del profeta, ma nell’accezione più larga
ricomprende anche ciò che lo precede e prepara, il suo antecedente, ovvero il
“viaggio notturno” (isra’) . Infatti in tutte le
recensioni della pia leggenda, il profeta dell’Islam fa precedere questa
scalata al cielo da un notturno viaggio di spostamento sul famoso cavallo
alato Buraq portato da un angelo, viaggio che si svolge tra la Mecca e
Gerusalemme. Il viaggio di Maometto combina insomma indissolubilmente nella
leggenda che ci viene tramandata una dimensione orizzontale e una dimensione
verticale.
E’
facile intuire i contorni del complesso simbolico associabile a ciascuna di
queste dimensioni, che, sia detto en passant, riproducono in fondo un
andamento “cruciforme”. Ad esempio si può notare che all’una,
l’orizzontale, è sistematicamente associata la tenebra notturna, che il
profeta è in grado di superare solo grazie a un intervento soprannaturale (il
cavallo alato, l’angelo-guida); all’altra, la verticale, è associata una
luminosità crescente, una luce che progressivamente si amplia di cielo in
cielo fino a divenire il bagliore accecante di cui è circonfusa la dimora
celeste di Allah. La identificazione in questo schema bi-dimensionale del
paradigma archetipico di ogni viaggio dell’anima, di ogni spirituale cammino
alla ricerca di Dio, è stata pressoché immediata nell’Islam. Stuoli di
poeti e di oscuri redattori di leggende, di mistici e di filosofi, di teologi
e di umili asceti si sono proposti nella vita o nei loro scritti di
riprodurre, di imitare il viaggio attraverso le tenebre e poi attraverso la
luce divina di cui fu protagonista il profeta, insomma hanno visto nel mi’raj
del profeta un modello per il mi’raj dell’anima..
2.
Un “ciclo del mi’raj”
Nella
letteratura colta espressasi nelle varie lingue su menzionate troviamo dunque
non a caso un vero e proprio “ciclo del mi’raj”, che ho cercato
altrove di descrivere sommariamente, un ciclo che conosce anche numerosi
epigoni in epoca moderna e persino contemporanea, si pensi sd esempio al Javedan-Namè
o “Poema celeste” dello scrittore indo-persiano e padre spirituale
del Pakistan moderno Muhammad Iqbal (m. 1938), che fonde nel suo mi’raj-namè
anche suggestioni provenienti dalla sua lunga consuetudine con autori europei
da Dante agli idealisti tedeschi. Ma certamente, il momento formativo di
questo ciclo si situa nel medioevo, e precisamente in ambito iranico tra l’
XI e XIII secolo come dicevo, allorché in persiano sono scritti diversi
rielaborazioni del tema del mi’raj, di cui le più importanti sono Il
viaggio nel regno del Ritorno di Sana’i e Il verbo degli
uccelli di ‘Attar, e, in arabo le due opere menzionate di Avicenna e
Sohravardi. Veniamoora a una breve descrizione di queste opere.
In
Sana’i la dimensione orizzontale del viaggio è assente: egli,
accompagnato e guidato da una misteriosa figura di santo vegliardo, ripercorre
nel suo mi’raj-name tutti i regni celesti salendo di cielo in cielo,
insomma sviluppando solo la dimensione puramente verticale del prototipo.
Il pellegrino attraversa tutti i regni naturali sub-lunari salendo
progressivamente dalla terra all’acqua, l’aria e il fuoco; quindi, in una
fase intermedia, attraversa le sette sfere celesti e l’ottava, quella delle
stelle fisse; quindi, in un balzo finale, le due ultime sfere governate
dall’Anima Universale e dell’Intelletto Universale per approdare infine
alla Luce delle luci. In ogni tappa egli ha modo di contemplare vari
personaggi e figure allegoriche e di ascoltare i commenti o gli insegnamento
del maestro-guida, una sorta di Virgilio. Sana’i ci fornisce insomma una
lettura in chiave gnostico-filosofica del prototipo sacro: il pellegrino
attinge alla sua meta attraverso la conoscenza, una conoscenza esoterica
mediata dal maestro spirituale. Questi è un filosofo e insieme una guida
spirituale, esperto dei regni dell’universo, delle scienze naturali e
dell’anima, insomma un saggio dal sapere enciclopedico.
Diversa
è l’impostazione di ‘Attar. Nel suo capolavoro, il nominato Verbo
degli uccelli, egli ci descrive un mi’raj sostanzialmente
orizzontale: gli uccelli si ritrovano in una radura e da questa partono alla
ricerca del loro mitico sovrano Simurgh, attraversando monti e deserti, mari e
città per approdare dopo l’ulteriore attraversamento di sette simboliche
valli alla vetta del monte Qaf. Ma ‘Attar scrive anche un secondo poema sul
tema del mi’raj, il Mosibat-namé o “Libro delle
avversità”. Qui il viaggio si fa sotto il profilo dimensionale alquanto
complicato per non dire confuso: il pellegrino, accompagnato dal solito
maestro-guida, si ritrova a percorrere una serie di quaranta tappe in
cui sono facilmente ravvisabili gli stadi della mistica via descritti nella
sterminata trattatistica del sufismo. Egli attraversa in una prima fase
dieci dimore ove incontra diversi angeli (Gabriele, Michele…) e oggetti
sacri personificati come il Trono lo Sgabello, il Calamo e la Tavola celesti
su cui il Dio coranico scrive i suoi decreti; in una seconda fase di
diciassette dimore il pellegrino ha l’iniziale visione dell’inferno
e quella finale di Satana dopo esser passato per le dimore di varie entità
personificate: cielo, sole, luna, fuoco, vento, acqua, terra, monte, mare,
vegetali, fiere, uccelli ecc. . Tutti queste entità dialogano con il
pellegrino dimostrandosi piene di dolore e sofferenza, ivi compreso
Satana, fatto oggetto di particolare compatimento. Nessuna delle creature e
entità incontrate è in grado di fornire spiegazioni soddisfacenti alla
domanda pressante del pellegrino che a tutti chiede ragione del proprio stato
di turbamento e angoscia. Ed è proprio un intima angoscia, un inspiegabile
dolore che muove il nostro protagonista alla sua incessante peregrinazione
cosmica. In una successiva terza tappa di nove dimore egli visita gli Spiriti,
l’Uomo e una serie di profeti da Adamo e Noè fino a Gesù e Maometto, ma
ancora una volta senza ricevere le risposte che cerca. L’ultima fase è però
quella per noi rivelatoria: essa, capovolgendo lo schema-mi’raj si
svolge non in salita bensì tutta in discesa. Il pellegrino discende
progressivamente attraverso le quattro dimore conclusive costituite da:
Percezione sensibile, Immaginazione, Ragione e Cuore. Qui infine, nel cuore,
il pellegrino scopre le risposte alle sue angosce, ovvero scopre che la meta
del suo cosmico e interminabile viaggio era in lui stesso. Alla domanda sul
perché di tanto vano e lungo peregrinare gli vien risposto che solo
attraverso ricerca e sofferenza si può apprezzare qualcosa e, in definitiva,
egli comprende il senso profondo, metafisico e etico, del “dolore”. Questo
stesso dolore (dard) era in fondo il tema anche del capolavoro di ‘Attar, il
menzionato Verbo degli Uccelli, i quali non arrivano a incontrare il
loro re Simurgh se non dopo aver attraversato mezzo mondo e le sette
defatiganti valli finali di cui sì è detto.
Ci
siamo intrattenuti un po’ su ‘Attar perché la sua lettura del mi’raj
profetico ne mette in evidenza un aspetto nuovo, non sottolineato nel
prototipo sacro, il mi’raj di Maometto e neppure nel mi’raj
di Sana’i, suo predecessore. Si tratta di un aspetto eminentemente etico: il
viaggio è certamente una ricerca, ma l’aspetto razionale-filosofico
di questa ricerca non è più in primo piano come in Sana’i. Questa ricerca
è accompagnata o meglio sarebbe dire è materiata di sofferenza, di
consapevole e accettato “dolore”, senza il quale il mistico pellegrino non
potrebbe approdare a nulla, né a Simurgh né a se stesso. Simbolo o meglio
emblema di questa lettura etica è la “discesa” in se stesso del
pellegrino che, pur mantenendosi sull’asse o dimensione verticale del
viaggio, ne rovescia paradossalmente, platealmente, il senso di marcia. Il
viaggio di Sana’i era inteso come attraversamento dei regni cosmici e
dei campi della conoscenza, esso portava il pellegrino sempre più in
alto, a sforare la cripta cosmica: ecco, questo della “sforamento” dei
limiti dell’universo ovvero del traforare il limite dell’universo, è un
motivo ben presente già nel Corano, ove l’impresa o meglio l’intenzione
di compiere l’impresa è attribuita ai jinn, che viene ad assumere quindi un
connotato vagamente demoniaco o tendenzialmente empio. Il viaggio di
‘Attar è viceversa inteso come attraversamento dei regni dell’anima e
porta il pellegrino in direzione opposta, in basso, verso il centro della
cripta cosmica individuato, agostinianamente si direbbe, in interiore nomine,
ovvero nel profondo del cuore.
3.
Avicenna e Soravardi
E
veniamo a Avicenna e Soravardi, i quali ci ripropongono una lettura
completamente diversa del mi’raj, e non solo rispetto all’aspetto
spaziale-dimensionale. Diciamo subito che la loro lettura si avvicina
all’idea del viaggio che emerge dal mi’raj di Sana’i, ossia del
viaggio in cui la dimensione conoscitiva, razionale-filosofica, diventa
preminente. Ma, a differenza di Sana’i i nostri due filosofi optano senza
rimpianti per la dimensione orizzontale. Veniamo a una breve descrizione di
questi due mi’raj filosofici.
I
protagonisti del racconto avicenniano sono un io narrante accompagnato da tre
allegri amici e una luminosa guida che porta il nome del titolo, ossia Vivens
filius Vigilantis, un saggio incontrato appena fuori dalla città durante
una scampagnata. Costui dichiara di provenire dalla Gerusalemme celeste,
di viaggiare senza sosta per tutte le province del mondo e di avere appreso
dal padre le chiavi di ogni scienza; quindi propone al protagonista, l’io
narrante, di abbandonare a se stessi i tre amici, evidenti allegorie delle
facoltà inferiori dell’anima, e di seguirlo senz’altro indugio in un
lungo viaggio iniziatico. Il saggio quindi comincia a descrivere
l’itinerario, che si snoderà attraverso le tre parti del mondo conosciuto:
l’Occidente, un mondo intermedio in cui vive l’umanità presente, e un
Oriente. Ma questa geografia non è completa, vi sono, egli aggiunge, anche
altri due continenti ignoti ai più: uno, posto oltre l’Occidente, che è un
abisso di tenebra irredimibile, e uno posto oltre l’Oriente, a tutti
precluso eccetto che agli eletti. Ciascuna di queste parti si suddivide poi
ulteriormente in climi e terre svariate, dettagliatamente descritte dal saggio
Vivens. Per farla breve, diremo che l’Occidente si divide in due climi, uno
di tenebre e di deserti inospitali, l’altro di luce e prosperità,
abitato perlopiù pacificamente. L’Oriente è invece assai più complicato:
si divide in nove climi, rispettivamente: un deserto, i tre regni naturali
abitati dalle rispettive specie (minerali, vegetali, animali), il regno umano,
il regno turbolento dei demoni, il regno dei jinn, il regno degli “angeli
terrestri”, tra cui sono le coppie di angeli che vigilano su ciascun
essere umano prendendo nota e scrivendo su un apposito registro buone azioni e
malefatte, e infine il nono e ultimo clima. Qui domina un re chiamato da tutti
l’Obbedito, la cui stessa abbagliante bellezza lo vela a chiunque,
un Re servito da purissimi sudditi che abitano in città e castelli
meravigliosi e sono a lungo risparmiati dalla morte. Oltre questo clima si
troverebbe il secondo Oriente, la sede inattingibile del Re predetto che vive
in perfetta solitudine; egli comunica col resto delle creature soltanto
attraverso un manipolo di eletti ammessi alla sua contemplazione;
quest’ultimi vivono in un deserto privo di ripari, ma sono incorruttibili e
inattaccabili dalle insidie del tempo e tra loro emerge la figura di un
intimo chiamato “il padre”. Il racconto avicenniano, in realtà poco
più che una statica descrizione della geografia cosmica e spirituale,
termina con l’invito che il saggio Vivens rivolge al protagonista: “Ora se
vuoi seguirmi, vieni con me verso di Lui!”.
Il
“Racconto dell’esilio occidentale” di Sohravardi è alquanto più
movimentato. Il viaggio comincia nell’estremo Occidente, a Qayrawan, e
anche qui l’io narrante s’identifica con il protagonista. Egli è
prigioniero nel profondo d’un buio pozzo insieme col fratello, entrambi sono
figli di un saggio che abita nel lontano Yemen, tradizionalmente terra di una
ancentrale sapienza, chiamato al-Yamani ossia lo Yemenita. Il
protagonista riesce in qualche modo a fuggire dal pozzo-prigione, s’imbarca
e, come nel racconto avicenniano, si libera presto dei compagni, qui il
menzionato fratello e una anziana nutrice, che cadono in mare e spariscono
dalla scena. La fuga dalla prigione d’Occidente ha per meta dichiarata il
ritorno al padre, il saggio dello Yemen, attraverso una serie di tappe. La
prima tappa si svolge come s’è visto per mare, quindi inizia una
seconda tappa via terra. Il protagonista giunge nella terra dei biblici (e poi
coranici) Gog e Magog, che minacciano popoli pacifici e qui, come faceva
l’Alessandro coranico, egli erige a loro difesa una barriera. Inizia
poi una terza tappa con un ascensus attraverso i vari cieli sino alle
costellazioni zodiacali e qui il protagonista può udire l’armonia delle
celesti sfere. Sembrerebbe il culmine del racconto, e invece no. Lo scenario
cambia all’improvviso e nella quarta tappa ci ritroviamo nuovamente a terra:
il protagonista rispunta fuori da una misteriosa caverna , scopre la
leggendaria fonte dell’acqua di vita sul monte Sinai e quindi lo scala sino
alla vetta. Qui ritrova il padre, il vecchio saggio al-Yamani, il quale
sorridente gli addita in alto il proprio genitore, un angelo sfolgorante, il
quale a sua volta addita al proprio genitore, un altro angelo luminoso
che sta ancora più in alto e così via fino a colui che sovrasta tutto questo
luminoso pleroma celeste ed è chiamato l’Antenato. Al termine della
visione, il saggio al-Yamani prescrive al figlio di ritornare là donde era
partito ossia nell’estremo Occidente, poiché non è ancora libero da lacci
e laccioli dell’esistenza carnale. L’esilio non è ancora finito insomma,
ma il protagonista ora conosce la strada e sa che quando la ripercorrerà
nuovamente potrà definitivamente fermarsi presso il padre.
4.
L’ascensus e alle scansioni interne al viaggio
Fermiamoci
qui e cerchiamo di mettere a fuoco due aspetti particolari di queste
rielaborazioni del prototipo sacro, mi riferisco in particolare al momento
dell’ascensus e alle scansioni interne al viaggio.
Si
osserverà che nel mi’raj di Avicenna non v’è neppure un
viaggio al cielo, in quello di Sohravardi c’è sì un ascensus, ma non è
risolutivo: il protagonista si ritrova sulla terra, sul monte Sinai, è lì
che ha l’incontro risolutivo con il padre ovvero il suo angelo-guida. Per
questo aspetto Sohravardi si avvicina e preannuncia il Mosibat-namè di
‘Attar, dove pure l’ascensus non è risolutivo, anzi prepara il tratto
finale in discesa verso le profondità del cuore. Il viaggio narrato nel
racconto tutto orizzontale di Avicenna ci ricorda invece più da vicino la
struttura dell’altro e più famoso mi’raj di ‘Attar, Il verbo
degli uccelli, di cui s’è detto poc’anzi.
Il
mi’raj di Sana’i, che indubbiamente esercita un forte influsso su
tutto il “ciclo del mi’raj” nelle varie letterature d’area
islamica è a ben vedere l’unico che riprende in pieno e sviluppa
compiutamente la dimensione verticale del prototipo sacro – il mi’raj
di Maometto – l’unico insomma il cui l’ascensus celeste rappresenta il
culmine del viaggio del protagonista.
Passiamo
ora a esaminare le scansioni interne al viaggio, ovvero come i nostri poeti e
filosofi iranici hanno letto i vari “pioli” della Scala di Maometto.
Com’è noto Maometto si arrampicava per una scala dorata sino al primo cielo
e poi veniva portato di cielo in cielo sino al cospetto dei Allah. La
successione di questi cieli nelle rappresentazioni iconografiche viene a
costituire una seconda, immensa scala cosmica, una scala che fornisce il
paradigma interpretativo dell’universo mondo sia nel mondo islamico che in
quello cristiano medievali. Ma, a ben vedere, solo Sana’i mantiene in
sostanza questo tipo di struttura, in cui i vari pioli della Scala sono fatti
coincidere con i diversi piani del cosmo, da quelli inferiori identificati con
i quattro elementi empedoclei a quelli superiori che coincidono con la
successione delle sfere celesti. ‘Attar si discosta da questa lettura già
in Il verbo degli uccelli. La successione delle sette valli: ricerca
amore conoscenza distacco unificazione stupore e annientamento, non
presenta più neppure una pallida traccia di tipo geografico-cosmologico e va
in direzione nettamente etico-psicologica. Le sette valli compongono con
ogni evidenza una “scala” dell’anima e dei diversi stadi della
perfezione mistica: non a caso il nome di ciascuna di esse corrisponde a
una o l’altra delle tante dimore analizzate nei trattati teorico-pratici del
sufismo. Nell’altra opera esaminata di ‘Attar, il Mosibat-name, i
“pioli” della Scala ricevono una lettura eminentemente allegorica: possono
essere rappresentati da idee personificate (come la Percezione o la Ragione) o
da entità profetiche, o angeliche; alcune, è vero vengono fatte coincidere
con entità terrene o celesti, ma si tratta ancora di personificazioni con cui
di volta in volta dialogano il pellegrino e il suo maestro. Se guardiamo
infine a Avicenna e a Sohravardi, i “pioli” delle loro scale
mantengono viceversa una forte connotazione geografico-cosmologica, ma, come
s’è visto, si tratta di scale per così dire “orizzontalizzate”: in
esse la meta, l’Oriente, viene a corrispondere non con la Gerusalemme
celeste del mi’raj, ma piuttosto con la Gerusalemme terrena del isra’.
Ecco i due filosofici origine iranica, Avicenna e Sohravardi hanno sostituito
una geografia tutta terrena compresa nella polarità occidente-oriente alla
originaria geografia cosmica, che aveva la terra solo come punto di partenza
di un scala che portava oltre il cielo delle stelle fisse verso uno zenith
collocabile negli ineffabili spazi divini.
Un
terzo aspetto va qui evidenziato. Soltanto nel mi’raj di Sana’i i
vari piani della cripta cosmica risultano popolati da categorie di persone che
potremmo assimilare ai dannati e ai beati intravisti da Maometto nel suo mi’raj.
I vari piani del cosmo di Sana’i infatti forniscono una tassonomia delle
anime secondo criteri di tipo retributivo: nei regni inferiori del mare, della
terra dell’aria e del fuoco troviamo categorie di esseri e di animali che
rappresentano un vasto campionario di vizi: invidia, ira, lussuria, gola ecc,;
nel piani intermedi, rappresentati dalle sferen celesti, troviamo varie
categorie di personaggi che rappresentano le deviazioni dottrinali e le
eresie: dai materialisti ai dualisti, dai filosofi ai falsi asceti; infine nei
cielio più alti compaiono le schiere dei beati, perlopiù
identificabili con i mistici.
Ebbene
questa associazione della struttura cosmica a un criterio morale-retributivo
è ben presente nel mi’raj orizzontale di Avicenna in cui, abbiamo
visto, Occidente e Oriente si sub-dividono in ulteriori territori o climi
abitati da varie categorie, e Sana’i sembra avere presente Avicenna almeno
per questo aspetto. Il quale è invece ignorato in Sohravardi, in cui
Occidente e Oriente non sono utilizzati come griglie “etico-.retributive”,
bensì semplicemente come punto di partenza e d’arrivo del viaggio. Ma la
dimensione retributiva dello spazio cosmico è ignorata anche da
‘Attar, colui che indubbiamente ha utilizzato il prototipo sacro nel
modo più libero, nel quale come s’è visto la meta del viaggio non
sta né in cielo né in Oriente, bensì nel profondo del cuore che ricerca.
Peraltro
ciò è in linea con un topos dell’insegnamento sufi secondo cui
“inferno” e “paradiso” non sono che una proiezione degli stati
tenebrosi e luminosi dell’anima. Tipicamente molti sufi ci dicono che “il
paradiso fu creato per gli sciocchi”. Rabi’a la grande mistica di Baghdad
del IX secolo camminava per le strade del bazar reggendo con una mano un
secchio di acqua e con l’altra una torcia; a chi le chiedeva la
ragione rispondeva che intendeva con la torcia dar fuoco al paradiso e con
l’acqua spegnere le fiamme dell’inferno perché gli sciocchi la
smettessero di servire Dio per timore del castigo o nella speranza di un
premio.
Fin
qui abbiamo passato in rassegna alcuni aspetti differenziali. Ma vi sono anche
altri aspetti che vale la pena di sottolineare, e che sono direi comuni a vari
mi’raj-name qui brevemente esaminati. Essi riguardano alcune
macroscopiche modificazioni rispetto al prototipo comune ovvero il mi’raj
di Maometto descritto nelle fonti scritturali. Certo, tutti i nostri autori
richiamano implicitamente esplicitamente, proprio all’inizio dei loro poemi
o racconti visionari, il mi’raj di Maometto e questo richiamo diverrà
poi obbligato negli autori posteriori, persiani o turchi, indostani o malesi
che siano. Però il protagonista dei loro mi’raj non è più il
profeta, l’eroe sacro, bensì un anonimo pellegrino, spesso come s’è
visto identificato con l’io narrante; l’unica eccezione in questo senso è
il viaggio allegorico degli uccelli di ‘Attar, ove abbiamo un pellegrino
collettivo, gli uccelli appunto, peraltro trasparente simbolo dell’anima che
va incontro a Dio. La sostituzione dell’eroe sacro con l’eroe mistico è
un tratto comune a tutto il “ciclo del mi’raj”, e come ho
mostrato altrove ci richiama l’analogo passaggio che osserviamo tra i
presunti modelli biblici di Dante – Apocalisse di S.Paolo o di S.
Pietro, Viaggio agli inferi di Gesù, ascensione di Elia –
e la Commedia.
Un
secondo aspetto comune emerge, a partire dalla lettura del personaggio
angelico,. Gabriele, che accompagna Maometto nel suo viaggio ultraterreno.
Gabriele, nelle varie versioni popolari del mi’raj e anche nel
celebre Libro della Scala noto in Europa, non è che una mera guida: egli
mostra a Maometto i luoghi che via via egli incontra fornendo qualche parca
spiegazione e lo accompagna di cielo in cielo sino a Dio. Ma Sana’i e
‘Attar, Avicenna e Sohravardi ci descrivono il rapporto tra pellegrino e
guida in modo ben diverso, e non solo perché la guida è in essi non
l’angelo Gabriele bensì unl luminoso, saggio, vegliardo. Questa guida nei
nostri autori persiani non si limita a mostrare e spiegare i diversi luoghi
della cripta cosmica, ma si propone al pellegrino in qualità di maestro
ovvero fa del pellegrino il proprio discepolo. In altre parole tra guida e
pellegrino si stabilisce fin dal primo incontro un rapporto di tipo iniziatico.
Che questa iniziazione si svolga poi secondo i dettami della disciplina del
sufismo, come è evidente in ‘Attar o di una gnosi a forti tinte esoteriche
e filosofiche come è il caso di Sana’i, Avicenna e Sohravardi, è in fondo
un dettaglio. Tutti i nostri autori hanno comunque letto il mi’raj di
Maometto come un viaggio di iniziazione, tutti hanno sostituito l’angelo
Gabriele con il “maestro”, proprio come fa il nostro Dante che si cerca
non un’angelica guida – come pure gli sarebbe stato possibile a partire
dai testi apocalittici su menzionati – bensì Virgilio.
A
ben vedere, tutti i nostri autori, indistintamente, hanno letto nella scala di
Maometto una proiezione della scala dell’anima, e nel suo straordinario
viaggio al cielo hanno visto in trasparenza un viaggio in interiorem hominem.
La scala risulta insomma prepotentemente interiorizzata, ri-dislocata
dai cieli astronomici ai cieli più rarefatti dello spirito. Il mi’raj
dalla terra al cielo ovvero da Occidente a Oriente, si rivela una potente
figura del viaggio dello spirito umano attraverso la scala di se stesso. Qui
siamo al cuore della rilettura dell’archetipo sacro. I piani della cripta
cosmica diventano per analogia i piani dello spirito, l’esplorazione dei
cieli una esplorazione dell’anima. Si stabilisce un rapporto di metonimia
tra spirito e natura, tra scala del cielo e scala dell’anima, qualcosa che
accomuna tutti gli autori medievali a est come a ovest che hanno affrontato il
tema del viaggio nell’aldilà. Nei mi’raj persiani o
arabo-persiani i “pioli” della Scala di
Maometto vanno metonimicamente a richiamare vuoi le varie
stratificazioni dell’anima già descritte da Aristotele e rielaborate da
Avicenna, vuoi le diverse dimore spirituali descritte nei breviari spirituali
delle confraternite sufi.
Questo
ci mostra che il mi’raj ha funzionato appunto come un prototipo, un
archetipo, cui liberamente ispirarsi, piuttosto che come un modello in senso
stretto normativo. Di esso i nostri autori hanno valorizzato di volta in volta
quella o questa dimensione spaziale, lo hanno letto vuoi come viaggio della
ragione vuoi come viaggio del cuore, ne hanno dato una lettura vuoi
gnostico-filosofica vuoi etico-mistica, ma tutti hanno visto nel viaggio
di Maometto non l’inimitabile impresa di un uomo inimitabile bensì il
prototipo del viaggio di ogni anima che s’è posta alla ricerca di se
stessa.
Ends
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