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Lin
Jang, 1416 1480, Cina
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Versione
rivista e corretta
Mio
caro piccolo di storno
Mio caro piccolo di storno, perché dovevo ieri imbattermi
nella tua esistenza deperita, sulle soglie di casa, dopo ch'eri già caduto
dall' albero, appena in tempo per salvarti dal gatto che ti era già sopra ,
nello stesso punto del selciato del cortile in cui mi avvedevo a sera del
rondone che non riusciva a sollevarsi in volo, intanto che un altro gatto
aspettava di ghermirlo all' estremità opposta di un'autovettura, se tu, nella
cui salvezza facevo più affidamento perché allo stecco potevo alimentarti, e
deglutivi, e a lungo ti eri abbeverato ieri in gabbia, sei già morto così
orribilmente e con tanta tua pena, per mano e inavvertenza di me stesso che
ti avevo fortunosamente scampato e mi ero preso a cuore di soccorrerti,
mentre il rondoncino, per il quale trepidavo tanto, -in quanto che temevo che
avesse un' ala rotta e non voleva saperne di alimentarsi in cattività,
appigliato alle reti della gabbia nella sua integrità ribelle,- ha ripreso
già stamane il volo dall' alto ed è dileguato felicemente via.
In lacrime, alla tua morte, riordinavo la veranda che
mi era stato così gravoso adattare al mio vano sforzo di recuperati alla
vita, vivendo come un peso immane il dono del cielo così grande di poterti
soccorrere, l'incombenza che i miei giorni estivi fossero distolti da ogni
mio intento non più scolastico per trasformarsi nella sola tua assistenza
assillante, quasi che un'altra fosse oramai la mia ragione di vita, che di
soffrire e di scrivere per la meraviglia continua della vita animale. Giù
nell' aiuola grande in cui tutta una mattina ieri avevi gridato, come mi
hanno detto i vicini di casa, in attesa vana che dai rami degli alberi i tuoi
genitori ti venissero in aiuto, un
gatto mi fronteggiava nell' ombra della verzura come un' ironia atroce,
sbadigliandomi in volto che ogni inutile precauzione per sottrarti alla sua,
alla loro insidia in agguato, si stesse tramutando nella trappola mortale in
cui chi doveva soccorrerti ha precipitato la più penosa tua fine.
Riponendo le piante di basilico sul punto stesso della
tua disgrazia finale, tornavo già a ricostituire l'ordine che così
brevemente, e già con quanto mio affanno febbrile, tu avevi sconvolto nella
mia quotidianità domestica, solo per un giorno e niente più, ma che mi è
bastato per piangerti ed amarti come ho pianto, ed amato, solo i miei due
uccellini con i quali per anni ho convissuto, talmente dolce è stata la tua
remissione alle mie cure letali, il tuo abbandono a poco a poco alla morte,
il tuo fluire via in una scia di tenerezza che emanavi, nel trepidare, ancora
caldo, tra le mie mani che ti carezzavano il capo e il corpo sempre più
inani, mentre ti facevi sempre più docilmente disposto come al solo e ultimo
loro conforto paterno e materno, ad ogni mio bacio delle tue povere piume, al
mio vezzeggiarti la gola ed un capino divenuti incapaci di vita e di cibo,
due occhi il cui brillio disperavo che non era più lume vedente.
E dire che ancora ieri, giù nel giardino, avevi gridato
tanto disperatamente, quando per l'ennesima volta ti avevo raggiunto per
riporti in una gabbia all' aperto, al punto che gli alberi, in uno stridio
atroce, erano risuonati della lamentazione riflessa dei tuoi genitori e
consimili.
Ma in breve ti eri venuto adattando anche a quel
congegno terribile, come a tutto quanto, all' una e all'altra gabbia, al
trasporto, dentro la scatola nera, da chi mi dicesse che cosa per te potessi
ancora fare, come alimentarti allo stecco, ed i tuoi artigli ora così rigidi
e secchi, non li hai più usati che nell' estremo sforzo di appigliarti alla
vita, in quei fili di quel nido cui volevi restare appreso, prima che potessi
capire che stavo distaccandotene perché di li a poco defluissi dalla vita
alla morte nelle mie mani, senza alcuno scrollare di capo, o che altro,
rimanendo immoto in quella poca vita residua ch'è divenuta la tua stessa
estinzione.
Non eri più niente? Solo quei resti che mi fissavano
ancora? E di te che cosa singhiozzavo che mi aveva lasciato? Che in
quell' istante se ne fosse andato via?
Ti ho riposto, come Bibò, il mio primo canarino, sulle
coltri del mio letto nel tuo piccolo cadaverino , mi sono steso a te accanto
e ti ho pianto a dirotto, odorandoti nel tuo profumino selvatico mentre
baciavo e ribaciavo le tue care piume, ti carezzavo il becco illividitosi,
con i bargigli non ancora formatisi della tua precocità, per poi aprirne la
cavità che non aveva opposto alcuna resistenza al mio accanimento di
alimentarti, anche quando la poltiglia di omogeneizzati e pastoncino ti era
avanzata su quella piccola lingua, come tutto il tuo esserino divenuta oramai
inane anch' essa, al mio cospetto straziato di averti fatto soccombere.
Dio, Dio, perchè farlo nascere a un destino così
atroce, gridavo, perchè dargli la vita e farlo venire alla luce di a uno scempio del genere?
Che atrocità, poco prima della tua fine, che atrocità
che mi riassaliva nel pianto, quel tuo estremo grido di richiamo in cui era
tutto il tuo essere che si rivoltava riverso, in cui aprivi il becco in
un'articolazione fioca e roca che si perdeva rallentata nella sua vanità
estrema, e nella quale risuonava anche in te, -poco prima del niente?, - il
grido estremo di ogni disperazione vivente:" Padre mio, padre mio,
perché mi hai abbandonato?"
Prima che il tuo affievolirsi diventasse la tua rapida
agonia, in gabbia a che seguitavi a volgere lo sguardo, su in alto?
Anche quando improvvidamente ti ho poggiato sul ripiano
del davanzale, libero da sbarre, hai persistito a volgerti alla luce tra il
folto dell' albero al quale ti ho posto di fronte, perché al tuo richiamo,
sempre più debole, da esso potessero accorrere i tuoi genitori.
L' albero paterno così vicino, così irraggiungibile...
IL tuo capo poi dall' alto l' hai arrotato all'
indietro, in un corpicino incapace oramai di ergersi, che nemmeno era più in
grado anche solo di equilibrarsi, sicché ti porgevo l' ambito di raccolta
della mia mano dove spirarvi, tra i miei sussurri e le mie carezze, per
quello che potevano giungerti a conforto.
Per la casa mi sentivi, poi,? come vagavo sconvolto dal pianto e dal senso di
colpa, accusandomi che la tua morte
fosse già una mia liberazione dal fardello della tua pena, dallo
sconvolgimento delle agonie che vi avevo rivissuto dei miei altri uccellini,
in preda allo identico sconforto che anche tu, come loro agonizzanti, fossi
finito tra le mie mani incapaci di soccorso, ed intanto riponevo il tuo
esserino ancora caldo ora qui , ora là, in questo e quel punto sulla tovaglia
che maculavi, - come il rondone l' aveva già sporcata dei suoi escrementi,- e
ti risollevavo anche di lì, inorridito dello spuntone a nudo del tuo sterno,
-vi restava una tua chiazza, scura, di sangue, la cui scaturigine non
ritrovavo all' esterno del tuo corpo, era fluito invece dal tuo becco,
da cui ne trapelava ancora un poco.
Che può importare al mondo, ad altri, che venissi così
spiegandomi la precipitazione della tua fine, il tuo piccolo caso di così
poco conto anche per i veterinari ai quali ho chiesto un aiuto,- tu povero
animalucolo il cui soccorso non è per loro remunerativo,- quel sangue era il
fiotto della rottura interna di qualche tuo organo che aveva trasformato la
tua crisi in agonia, quando a farti precipitare riverso all' interno della
veranda, era stato finalmente l'accorrere al tuo richiamo di un tuo genitore.
Vedendoti già socchiudere così
preoccupantemente gli occhi non più lucidi, e brillanti, non avere più
slanci di voli, ti avevo liberato anche della gabbia per favorire l'evento,
così come tu te n' eri già liberato in mattinata, di tua iniziativa
inesausta. E' stato al rientro dalla visita per fare esaminare il
rondone ch'era nell' altra gabbia, che ti avevo sorpreso che n’eri
uscito fuori stupefacentemente,
traverso uno dei pertugi della mangiatoia, come sotto i miei occhi
avresti ritentato a più riprese, per arrestarti sullo stipite
metallico della finestra, e lanciare di lì il tuo richiamo ai tuoi genitori.
Già avevi iniziato a richiamarli appena all' alba si è
fatto giorno, e l'albero si era riempito di voci e gridii, il genitore era
accorso ma aveva dovuto arrendersi alle sbarre della gabbia.
Poi ,nel pomeriggio, dopo che pertanto ti ho lasciato
così esposto, non ho voluto assistere, per favorire l'evento, quando dalla
camera accanto ho intravisto il tuo genitore lasciare le fronde e venirti in
soccorso,- solo ho udito il rumore di un urto, di uno schianto, ho guardato
dall' interno della cucina e non ho più visto alcunché, né te, né il tuo
genitore.
Che tu fossi caduto nel cortile di sotto? No, che non
v'eri, - che ti avesse, fantasticamente, il tuo genitore ghermito e portato
con sé? No, purtroppo, ( così come mi avrebbe risollevato che fosse
accaduto), ti ritrovavo invece miseramente al fondo della scatola in cui eri
precipitato, all' interno del davanzale, dal suo tratto in cui ti avevo
poggiato e ch'era l'unico che improvvidamente io, il tuo soccorritore
presunto, avevo lasciato esposto ai
rischi di una tua caduta.
Ti avessi messo solo un poco più in là, ove era
addossato al davanzale il mobiletto su cui avevo collocato la gabbia,
saresti finito, nell' urto, al più contro di esso.
Ed in quella scatola era collocato abitualmente,
ma allora non c'era, il nido che avevo raccolto dopo che un temporale l'aveva
fatto cadere al suolo, e che era stato già edificato dai tuoi genitori per
una precedente nidiata.
Era in esso che ora ti riponevo, dopo che avevo
propiziato il colpo di grazia della tua fine.
Il tuo cadavere ha ora trovato il refrigerio del mio
freezer, divenuto la cella mortuaria di ogni mio uccellino che ho che amato,
dentro un sacchettino ed una vaschetta per loculo.
Il tuo cadavere nel freezer, mentre la tua gabbia e la
tua scatola con i buchi le ho riposte via, così come il pastone per
insettivori e le siringhe e ogni bicchiere di plastica in cui avevo impastato
il tuo alimento,- in attesa che ciò che di te si era compiuto per mano
della mia disgraziata persona, si commutasse in queste mie scritture.
Come ogni giorno poi ho preparato di nuovo la
pastasciutta con un poco d'olio soltanto per le mie anitre al lago, per me
invece degli spaghetti al sugo di pomodoro, in luogo del panino al
prosciutto che mi è divenuto immangiabile nella sua fetta di carne animale.
Come ogni giorno poi ho
preparato di nuovo la pastasciutta per le mie anitre al lago, per me
invece degli spaghetti al sugo, in luogo del panino al prosciutto che mi é
divenuto immangiabile nel suo apporto carneo .
Oltre l’argine già li vedo ora accorrere, i miei
germani, che con gli occhi lucenti di contentezza, si impediscono a vicend ,
nell' affrettarsi verso il mais che dissemino intorno, al punto, che il
mio anitroccolo diletto, spazientito, morde la coda al compagno che gli si
frappone davanti.
E incalzanti riecco le folaghine, immancabili di corsa,
oltreché la famiglia dei quattro anitroccolini e della loro madre,
dell'anitra matrona e degli undici suoi piccoli, già cresciutelli, - da
oggi sono anch'essi da aggiungere a tavola, giacché non nutrono più timori
che li trattengano in disparte; prima ancora, che sempre più ricorrenti,
sopraggiungano dal largo anche dei cigni, attirati dalla ressa che sentono a
riva.
Così rieccomi chino di nuovo verso l'uno e l'altro dei
miei germani, che distribuisco il mais residuo ai nuovi venuti, intento ora a
gettare agli anitroccoli in acqua del biscottino, ora a fare attenzione
che gli uni e gli altri abbiano la loro parte, sentendo quanto mi intenerisco,
per l'anitra al largo con un solo figliolino [1][1][1].
Ma il tripudio di vita cui contribuisco nel parco
incantevole, mi fa ancor più cocentemente piangere la tua sventurata sorte,
mia anima di storno,- ad ogni uccellino, ad ogni altro storno che vi vedo,
gridando " Vola, vai, innalzati al cielo tu che lo puoi!".
Abbandonarti al tuo destino, è a quanto mi sono
vanamente opposto, mio caro, consegnandoti così a una morte ancora più
atroce, facendoti precipitare ancora più giù, che dal tuo albero, da chi dei
tuoi genitori ti era venuto in soccorso, giù nella trappola di morte che ti
avevo allestito con ogni sollecitudine.
Durasti un giorno solo, ma è bastato a che ti ami per
sempre, mio piccolo, a che non veda altro paradiso, per me possibile, che di
riunirmi allora alla tua luce di dolcezza, come di ogni altro uccellino ed
umano che amai.
O altrimenti è bastato perché non veda altro
conforto al niente, se è soltanto il niente che c'è, che di precipitarvi nel
nulla in cui anche la tua povera e meravigliosa esistenza è insostenibilmente
svanita, tutta la umiltà di incanto che tu fosti,- come lo è ogni uccellino,
ogni altro animale vivente.
M
io caro piccolo di storno,
perché dovevo ieri imbattermi nella tua esistenza deperita, sulle soglie di
casa, - dove da chissà quanto ti aveva precipitato nell'inedia la caduta
dall' albero-, appena in tempo per salvarti dal gatto che ti era già sopra, e
nello stesso punto, del selciato del cortile, in cui mi avvedevo a sera del
rondone che non riusciva più a sollevarsi in volo, mentre già un altro gatto
condominiale, all' estremità opposta di un'autovettura, non aspettava che di
ghermirlo,- se tu nella cui salvezza facevo più affidamento, perché allo
stecco potevo alimentarti, e deglutivi, ed a lungo ti eri abbeverato ieri in
gabbia, sei già morto così orribilmente, con tanta tua pena, proprio per mano
e per inavvertenza di me stesso, che ti avevo fortunosamente salvato e mi ero
obbligato a soccorrerti, mentre il rondoncino, per il quale trepidavo tanto,-
in quanto che temevo che avesse un'ala rotta e non voleva saperne di
alimentarsi in cattività, appigliato alle reti della gabbia nella sua
integrità ribelle,- già stamane ha ripreso il volo dall' alto ed è dileguato
felicemente via.
In lacrime, alla tua morte, riordinavo
la veranda che mi era stato così gravoso adattare al mio vano sforzo di
recuperati alla vita, vivendo come un peso immane il dono del cielo talmente
grande di poterti soccorrere, l'evento che i miei giorni estivi venissero
trasformandosi nella sola tua assistenza assillante, quasi che un'altra fosse
oramai la mia ragione di vita, che quella di soffrire e di scrivere per la
meraviglia continua della vita animale. Giù nell'aiuola grande in cui per
tutta la mattina ieri avevi gridato, così mi è stato detto dai vicini di
casa, in attesa vana che dai rami degli alberi i tuoi genitori ti venissero
in aiuto, un gatto mi fronteggiava all' ombra della verzura nelle sembianze
di un'ironia atroce, sbadigliandomi in volto quanto ogni inutile precauzione
per sottrarti alla sua, alla loro insidia in agguato, si sia tramutata nella
trappola mortale in cui chi doveva soccorrerti ha precipitato una più penosa
tua fine.
Riponendo le piante di basilico sul
punto stesso della tua disgrazia finale, tornavo già a ricostituire l'ordine
della mia quotidianità domestica che così brevemente, e già con tanto mio
affanno febbrile, avevi sconvolto solo per un giorno, ma è quanto è bastato
per piangerti ed amarti come alla loro morte non ho pianto ed amato i miei
due uccellini con i quali ho convissuto per anni, talmente dolce è stata la
tua remissione alle mie cure letali, il tuo abbandono alla morte nella scia
di tenerezza che emanavi, mentre a poco a poco tu fluivi via.
Trepidavi ancora tra le mie mani, che
ti carezzavano il capo ed un corpicino sempre più fievole, sempre più
docilmente confidente come nel solo ed ultimo tuo conforto, paterno e
materno, in ogni mio bacio delle tue povere piume, nel mio vezzeggiarti la
gola ed un capino oramai incapaci di vita e di cibo, due occhi, il cui
languidio, disperavo che non era più lume vedente.
E dire che ancora ieri, giù nel
giardino, avevi gridato tanto disperatamente, quando per l'ennesima volta ti
avevo raggiunto nel tuo saltellio per riporti in una gabbia all' aperto,
talmente disperatamente che gli alberi, in uno stridio atroce, erano
risuonati della lamentazione riflessa dei tuoi genitori e degli altri storni.
Ma in breve ti eri venuto adattando
anche a quel congegno terribile, come poi a tutto, all' una ed all'altra
gabbia, al trasporto, dentro la scatola nera, da chi sapesse dirmi che cosa
per te potessi ancora fare, mettermi in grado di alimentarti allo stecco, ed
i tuoi artigli, ora così rigidi e secchi, non li hai più usati che nell'
estremo sforzo di appigliarti alla vita, quando ai fili di quel nido volevi
ad ogni costo restare appreso, prima che potessi capire che stavo
distaccandotene solo perché di lì a poco defluissi dalla vita alla morte
nelle mie mani, senza alcuno scrollare di capo, o che altro, rimanendo sempre
di più immoto nella poca vita residua ch'è divenuta la tua stessa estinzione.
Non eri dunque più niente? Che quei
resti che senza più vedermi mi fissavano ancora? E di te che cosa
singhiozzavo che mi aveva lasciato? Che in quell' istante se ne era andato
via?
Come Bibò, il mio primo uccellino, nel
tuo cadaverino ti ho riposto sulle coltri del mio letto, mi sono steso a te
accanto e ti ho pianto a dirotto, odorandoti nel tuo profumino selvatico
mentre baciavo e ribaciavo le tue care piume, ti carezzavo il becco
illividitosi, i bargigli non ancora formatisi della tua precocità, per poi
aprirne la cavità che non aveva opposto alcuna resistenza al mio accanimento
di alimentarti, anche quando la poltiglia di omogeneizzati e pastoncino ti
era avanzata su quella piccola lingua, come tutto il tuo esserino oramai
inane, anch' essa, al mio cospetto straziato di averti fatto soccombere.
Dio, Dio, perché farlo nascere ad un
destino così atroce, gridavo, perché dargli la vita per destinarlo ad uno
scempio del genere?
Che mostruosità, poco prima della tua
fine, che mostruosità, che mi riassaliva nel pianto, quel tuo estremo grido
di richiamo in cui tutto il tuo essere si rivoltava riverso...
Vi aprivi il becco in
un'articolazione, fioca e roca, che si perdeva rallentata nella sua vanità
estrema, ma in cui risuonava anche in te, poco prima del niente, il grido
estremo di ogni disperazione vivente:" Padre mio, padre mio, perché mi
hai abbandonato?"
E intanto che il tuo deperimento
diventava la tua rapida agonia, in gabbia a che seguitavi a volgere lo
sguardo su in alto?
Anche quando improvvidamente ti ho
lasciato libero sul ripiano del davanzale, hai persistito a volgerti alla
luce che trapelava tra il folto dell' albero al quale ti ho posto di fronte,
perché al tuo richiamo, sempre più debole, dalle sue fronde potessero
accorrere i tuoi genitori.
L' albero per te così vicino, così
irraggiungibile...
Quel capo poi dall' alto cui ti
volgevi l' hai arrotato all' indietro, in un corpicino incapace oramai di
ergersi, di equilibrarsi, poco prima che ti porgessi l' ambito di raccolta
della mia mano dove spirarvi.
Tra i miei sussurri e le mie carezze,
per quello che potevano giungerti a conforto.
Per la casa sentivi, poi? come vagavo
sconvolto dal senso di colpa, accusandomi che la tua morte fosse già per me
una liberazione dal fardello della tua fine penosa, che nella tua agonia si
fosse ripetuta quella dei miei uccellini, in preda allo sconforto che anche
tu, come loro, fossi precocemente morto perché eri finito tra le mie mani
incapaci
Riponevo intanto il tuo esserino
ancora caldo ora qui, ora là, in questo e quel punto sulla tovaglia, che
maculavi, - come già il rondone l'aveva sporcata dei suoi escrementi,- e ti
risollevavo anche di lì, inorridito dello spuntone a nudo della tua
clavicola, vi restava in tua vece una chiazza, scura, era del sangue che non
ritrovavo all' esterno del tuo corpo, che doveva essere invece fluito dalla
tua bocca, da cui ne trapelava ancora un poco.
Che può importare al mondo, a chi
altri, che venissi così spiegandomi la precipitazione della tua fine, il tuo
piccolo caso di così poco conto anche per i veterinari ai quali ho chiesto
soccorso,- tu, povero animale selvatico, il cui soccorso non era per loro
remunerativo,
Quel sangue attestava che la rottura
interna di qualche tuo organo aveva trasformato la tua crisi in agonia, la
rottura ch'è avvenuta quando ti ha fatto precipitare riverso all' interno
della veranda, finalmente l'accorrere al tuo richiamo di un tuo genitore.
Vedendoti già socchiudere gli occhi,
non più lucidi e brillanti, non avere più slanci di voli, ti avevo liberato
anche della gabbia per favorire l'evento, così come tu te n'eri liberato in
mattinata, per tuo conto stupefacentemente. E' stato quando sono rientrato
dalle spese domestiche per portare a fare esaminare il rondone ch'era nell'
altra gabbia, che mi sono accorto che nel frattempo te n'eri uscito fuori
dalla tua, e a più riprese, attraverso uno dei pertugi della mangiatoia, per
poi arrestarti sullo stipite metallico della finestra della veranda, e
lanciare il tuo richiamo ai tuoi genitori.
Già avevi iniziato a richiamarli
appena si è fatto giorno, e l'albero si era riempito di voci e di gridi, un
genitore era accorso, ma aveva dovuto arrendersi alle sbarre della gabbia.
Poi nel pomeriggio, della tua fine,
dopo che ti ho lasciato così esposto all' arrivo di un tuo genitore, non ho
voluto assistere, per favorire l'evento, quando dalla camera accanto ho
intravisto l'animale lasciare le fronde e venire in tuo soccorso,- solo ho
udito il rumore di un urto, di uno schianto, ho guardato dall' interno della
cucina e non ho più visto alcunché, né te, né il tuo genitore.
Che tu fossi caduto nel cortile di
sotto? No, che non v'eri, - che ti avesse, fantasticament,e il tuo genitore
ghermito e portato con sé? No, purtroppo, ti ritrovavo invece miseramente
riverso sul pavimento della veranda, in una scatola dove eri precipitato dal
tratto del davanzale in cui ti avevo poggiato e ch'era l'unico in cui
improvvidamente io, il tuo soccorritore presunto, potevo lasciarti esposto ai
rischi di una caduta.
Ti avessi messo solo un poco più in
là, ove a ridosso del davanzale era accostato il mobiletto su cui avevo
collocato la gabbia, saresti finito, nell' urto, al più sopra di esso.
E in quella scatola stava
abitualmente, ma allora non c'era, il nido che avevo raccolto dopo che un
temporale l'aveva fatto cadere al suolo, e ch'era già stato edificato dai
tuoi genitori per una precedente nidiata. In esso alfine ti riponevo, dopo
che avevo propiziato il colpo di grazia della tua fine.
Il tuo cadavere ha ora trovato il
refrigerio del mio freezer, che è divenuto la cella mortuaria di ogni mio
uccellino che ho che amato, dentro un sacchettino ed una vaschetta per loculo.
Il tuo cadavere nel freezer, mentre la
tua gabbia e la scatola con i buchi sono finite nel ripostiglio, come il
residuo pastone per insettivori e le siringhe e ogni bicchiere di plastica in
cui avevo impastato il tuo alimento. Ciò che di te si era compiuto per mano
della mia disgraziata persona, in attesa di farsi queste mie scritture.
Per un pò di conforto, oltre che per
me, ho preparato di nuovo della pastasciutta per le mie anitre al lago.
Oltre l'argine già li vedo, i miei
germani, che mi vengono incontro con gli occhi lucenti di contentezza, mentre
si affoltano, si impediscono a vicenda, nell' affrettarsi verso il mais che
distendo a loro nel tovagliolo di carta, al punto, che spazientito, l'anitroccolo
ch'è il mio prediletto morde la coda al compagno che gli si frappone davanti.
E incalzanti si pongono al seguito le
folaghine, oltreché la famiglia dei quattro anitrini già cresciuti e della
loro madre, quindi l'anitra matrona e gli undici suoi anitroccoli, che da
oggi sono anch'essi da aggiungere a tavola, giacché non nutrono più timori
che li trattengano in disparte; prima ancora, che sempre più ricorrenti,
sopraggiungano dal largo i cigni attirati dalla ressa che si fa a riva.
Così rieccomi chino di nuovo verso
l'uno e l'altro dei miei germani, rieccomi che ora accorro a distribuire ai
nuovi che sopraggiungono il mais residuo, ora a gettare agli anitroccoli che
permangono in acqua del biscottino, attento a che gli uni e gli altri abbiano
la loro parte, e sento quanto mi intenerisco, per l'anitra al largo con un
solo anitroccolino[1][1][2][2].
Ma il tripudio di vita cui anch'io
contribuisco nel parco incantevole, mi fa ancor più cocentemente piangere la
tua sventurata sorte, mia anima di storno,- ad ogni uccellino, a ogni altro
storno che vi vedo, gridando " Vola, vai, innalzati al cielo tu che lo
puoi!".
Abbandonarti al tuo naturale destino,
mio caro, è a quanto mi sono vanamente opposto, invece consegnandoti così ad
una morte ancora più atroce, sbattuto ancora più giù, che dal tuo albero, da
chi dei tuoi genitori ti era venuto in soccorso, giù nella trappola di morte
che ti avevo allestito con ogni sollecitudine.
Durasti un giorno solo, ma è bastato a
che io ti ami per sempre, mio piccolo, a che non veda altro paradiso, per me
possibile, che di riunirmi allora alla tua luce di dolcezza, come di ogni
altro uccellino ed umano che amai.
O è bastato a che non veda altro conforto
al niente, se è il niente che è, che di precipitarvi nel nulla in cui anche
la tua povera e meravigliosa esistenza è insostenibilmente svanita, tutta la
umiltà di incanto che tu fosti,- come lo è ogni uccellino, ogni qualsiasi
altro animale vivente.
Ma a chi parlo ancora, in te, se fosse
così vero? Mio caro, mio caro piccolo storno, tra le lacrime tu ancora
superstite che ancora ti piangono.
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