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Albrecht Durer,
Giustizia
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Il
naturalismo giuridico di Spinoza
Per Spinoza, il diritto
di Dio coincide con la sua onnipotenza, tutto ciò che
è è in Dio, e Dio è tutto se stesso,
indivisibilmente, in tutte le cose, quale loro causa immanente, il
diritto divino, pertanto -quale natura naturante- si identifica
con la potenza stessa della Natura in atto, quale diritto
naturale della natura naturata. ..
Nell'identico
ordine, dunque, del diritto divino e naturale, l'ambito degli
uomini non è un regno autonomo nella Natura, i grado
di darsi leggi proprie artificiali, o convenzionali, che non
rientrino nell'ordine comune del determinismo naturale, l'uomo
è una parte della natura accomunata a tutte le altre dal
medesimo sforzo di conservarsi, -così come i corpi
tendono a persistere nel loro stato inerziale, secondo il
paradigma filosofico-scientifico della fisica galileiana già
esteso da Hobbes alla antropologia politica- per cui il diritto
divino si identifica con la forza stessa del nostro conatus, in
tutte le sue manifestazioni:
"E'
infatti certo che la natura, assolutamente considerata, ha pieno
diritto a tutto ciò che è in suo potere, e cioè
che il diritto della natura si estende fin là dove si
estende la sua potenza, essendo la potenza della natura la potenza
stessa di Dio, il quale ha pieno diritto a ogni uomo ma,
poichè la potenza universale dell'intera natura non è
se non la potenza complessiva di tutti gli individui, ne
segue che ciascun individuo ha pieno diritto a tutto ciò
che è in suo potere, ossia che il diritto di ciascuno si
estende fin là dove si estende la sua determinata potenza.
E, poichè è legge suprema di natura che ciascuna
cosa si sforzi di persistere per quanto può nel suo stato,
e ciò non in ragione di altra cosa, ma soltanto di se
stessa, ne segue che ciascun individuo ha a ciò pieno
diritto, e cioè come ho detto, ad esistere e a operare così
come è naturalmente determinato" (
Trattato
Teologico Politico, XVI, pgg.377-78; cfr.Trattato Politico, II,
2,3).
Nello
stato di natura l'uomo pertanto ha diritto a tutto ciò che
intende e che può fare.
La legge del suo diritto è
identica alle norme implicite nell'esercizio del suo potere
naturale. Diritto e realtà di fatto si identificano
assolutamente.
" Per
diritto e istituto naturale, non intendo altro che le regole
della natura di ciascun individuo, in ordine alle quali concepiamo
che ciascuno è naturalmente determinato a esistere ed a
operare in un certo modo. Cosi per esempio i pesci sono dalla
natura determinati a nuotare e i grandi a mangiare i più
piccoli, onde diciamo che di pieno diritto naturale i pesci sono
padroni dell'acqua e i grandi mangiano i più piccoli.
...E
qui noi non riconosciamo alcuna differenza tra gli uomini e
tutti gli altri individui della natura, né tra gli
uomini dotati di ragione e gli altri che ignorano la vera
ragione, nè tra i deficienti, i pazzi e i sani. Tutto ciò
infatti che ciascuna cosa fa secondo le leggi della sua natura,
questo fa di pieno diritto, in quanto agisce nel modo in cui è
determinata dalla natura, nè può comportarsi
altrimenti"
( Trattato
Teologico Politico, pg.377, 73; cfr. Trattato Politico II,
4).
Nello
stato di natura, che è lo stato in cui permaniamo,
costantemente, se non si tiene conto delle coazione delle
istituzioni politiche che è immanente nella nostra
condizione, l'individuo che asseconda ogni sua voglia non agisce
mai contro il diritto naturale, per il semplice fatto che tutto
ciò che fa lo compie per la potenza della natura che in lui
si esprime,
Più ancora che per Hobbes,
per Spinoza nello
stato di natura un individuo ha diritto a fare tutto ciò
che vuole, basta che lo voglia per una determinazione del suo
conatus, comunque sia modificato dalle affezioni che
patisce, anche a ledere o a uccidere se stesso e gli altri.
“Per
quel che riguarda, infine, la nostra terza questione, essa involve
contraddizione e mi pare equivalere alla domanda, se posto che la
natura di un individuo sia di impiccarsi, egli possa avere delle
ragioni per non farlo. Supposto che possano esservi nature
siffatte, io dico ( ammetta o no il libero arbitrio) che, se
qualcuno si accorgesse che potrebbe vivere più a suo agio
in croce che a tavola, sarebbe il più stolto degli uomini
se non si facesse crocifiggere. E così pure, chi vedesse
chiaramente di poter godere di una vita migliore e più
perfetta commettendo delitti piuttosto che praticando la virtù,
sarebbe a sua volta uno stolto se non lo facesse. giacchè i
delitti, rispetto a una natura umana pervertita a tal punto,
sarebbero virtù"
( Lettera 23,
pgg.150-151)
Saggi
o insensati, sani o malati, secondo il diritto naturale
tutti gli uomini comunquesiano hanno diritto a fare tutto ciò
che vogliono negli impulsi dei loro appetiti ( cfr.
supra e Trattato Politico II, 5, 18).
Ma di fatto, nello stato
di natura l'uomo è è determinato da ogni affezione
immaginaria, tranne che dagli affetti della ragione ( "
non sana ratione sed cupiditate et potentia determinatur"
Trattato Teologico Politico XVI, pg.378; cfr. Trattato Politico,
II, 5).Non esistono pertanto idee adeguate innate, nello stato di
natura, in virtù delle quali gli uomini nascano ragionevoli
e possano ragionevolmente vivere, nessuno nasce cittadino
responsabile ( " Gli
uomini non nascono cittadini, ma lo diventano",
Trattato Politico, V, 2), nessuno nasce moralmente religioso (
"...lo stato naturale è logicamente e cronologicamente
anteriore alla religione...Trattato Teologico Politico, XVI,
p.388).
"
Perciò, il diritto naturale individuale è
determinato non dalla sana ragione, ma dalla cupidigia e dalla
forza. Non tutti, infatti sono naturalmente determinati ad agire
secondo le regole e le leggi della ragione, ma al contrario tutti
nascono ignari di ogni cosa, e prima di poter apprendere il vero
modo di vivere e di acquistare l'abito della vrtù,
trascorrono gran parte della loro età, anche quando siano
stati accuratamente educati: e tuttavia debbono intanto vivere e
conservarsi per quanto è in loro, e cioè seguendo il
solo impulso dell'appetito, giacchè la natura non ha dato
loro altro, e ha negato loro l'attuale potenza di vivere secondo
la sana ragione, per cui non sono tenuti a vivere secondo le
leggi della sana mente più di quanto non sia tenuto il
gatto a vivere secondo le leggi della natura leonina"
Trattato
Teologico Politico, pg.378; cfr.rattato Politico II, 5).
Nello
stato di natura tutto ciò che riteniamo buono lo facciamo
necessariamente, se ne abbiamo la forza, è vietato solo
l'impossibile e l'indesiderabile ( Trattato Politico, II, 8,
18).
Se l'uomo vi rinuncia a ciò che vuole. è
solo per timore di un male peggioreo nella speranza di un bene
maggiore
" E'
legge universale della natura umana che nessuno trascuri ciò
che giudica bene, se non per la speranza di un bene maggiore o per
il timore di un maggior danno; e che non sopporti alcun male, se
non per evitarne uno maggiore o per la speranza di un maggior
bene" ( Trattato Teologico Politico XVI, pg.380).
Nello
stato di natura si è tenuti all'osservanza dei patti solo
per la speranza di un bene maggiore o per il timore di un maggior
male ( Trattato Teologico-Politico, ibidem; Trattato Politico II
12; III, 17).
Desumendo le leggi di natura dall'appetito, come
loro causa efficiente, a tal punto della sua argomentazione
Spinoza ha integralmente rovesciato la teoria classica
della legge naturale, che in Cicerone, ad esempio,
viene ricondotta a una perfezione finale ( ragionevolezza,
socialità), che è formulata, assunta e posta
come un dovere dal Sapiente è dal Politico.
Ma
Spinoza afferma tale rovesciamento per oltrepassarlo,
al'interno del diritto naturale, ponendo la massima potenza
dell'uomo come Libertà o Virtù..
Esistono diversi
gradi di perfezioine e di potenza dell'essenza della natura, dei
quali quello supremo è il sommo bene, lo stesso per tutti
gli uomini, per l'identica loro perfezione assoluta, universale,
comune a tutto il genere umano.
Di conseguenza ogni atto è
buono o nocivo, anziché neutro, a seconda che favorisca o
che ostacoli una potenza maggiore del soggetto, .
Secondo
il diritto generale di natura, per il quale il diritto di un uomo
equivale al suo potere, un uomo esercita tanto più diritto
quanto più va a fondo a quello che può, ossia
quanto più vive secondo le sole necessità della sua
natura. Il massimo del diritto e del potere di un uomo è
dunque la libertà di chi vive sviluppando la sua sola
attività immanente.
Nel naturalismo giuridico di
Spinoza il diritto del potere supremo così raggiunto,
costituisce la stessa virtù del sommo bene.
" Ma
poiché tutto ciò di cui l'uomo è causa
efficiente è necessariamente buono nessun male dunque, può
accadere se non da parte delle cause esterne cioè in quanto
egli è una parte di tutta la natura, alle cui leggi la
natura umana deve ubbidirew ed alla quale essa è costretta
ad adattarsi in infiniti modi"
( Ethica, IV, Appendice, capitolo VI ).
Poichè agire
secondo le sole necessità della natura umana è
conoscere adeguatamente la natura delle cose e comportarsi
virtuosamente secondo i soli dettami della ragione, il diritto
assoluto del sommo potere di un individuo si identifica con le
affezioni attive della vita razionale. L'uomo appartiene allora
totalmente a sé stesso , ed è pienamente "sui
Juris", in quanto egli così vive indipendente, e
non agisce che per delle cause che può conoscere
adeguatamente, agendo secondo la sua sola natura.
Nello stato
di natura si verifica invece che l'uomo esercito ogni grado di
diritto e di potenza, tranne che il sommo potere.
Nella realtà
gli uomini da sempre, necessariamente, hanno dovuto vivere in
società, per le molte cose di cui il loro corpo ha bisogno,
e per le molte attività che per procurarsele devono
compiere, che da solo ciascuno è incapace di fare, essi non
hanno mai vissuto isolati, bensì si sono sempre dovuti
associare, cooperando con la divisione del lavoro e con l'unione
delle loro forze contro le aggressioni" ( Trattato Teologico
-Politico, V)
Spinti tuttavia dalle passioni
appropriative che li rendono contrari e antagonisti gli uni agli
altri, nel presunto stato di natura, ossia allorchè vivono
in rapporto gli uni agli altri senza che sia stato
costituito uno Stato politico, tendono di continuo ad opporsi e
a temersi reciprocamente, negandosi il vicendevole aiuto, oppure
cadono nella dipendenza servile gli uni dagli altri, finendo
assoggettati o nel solo corpo, perchè ridotti con la forza
in schiavitù o nell'animo stesso, se si sottomettono a un
signore e padrone per paura, o pur di ottenere il beneficio che
sperano ( Trattato Politico, III).
Per la conflittualità
permanente che lo contraddistiingue, e che ostacola la
cooperazione tra gli individui, lo stato di natrura in cui tutti
hanno diritto a tutto ciò che vogliono, lo "jus omnium
in omnia”, si rivela una situazione di impotenza e di
schiavitù o di asservimento dei più, di fatto, nella
quale gli uomini non vivono la vita "ex sui juris",
appartenendo solo a se stessi, bensì quantomai "
alterius juris", subendo in rapporto agli altri individui
umani e alle loro forze l'ordine comune della Natura da cui sono
vissuti, che li fa dipendere da tutti coloro e da tutte le
istanze che li asserviscono, con la sola violenza fisica o
per il timore o per la speranza. per cui si assoggettano.
In
assenza di leggi civili ordinatrici, lo stato inerziale di natura
diventa dunque la condizione di esistenza in cui i singoli
individui umani hanno meno potere e diritto reale (Trattato
Politico, II, 15)..
Ha allora origine il passaggio che da
sempre avviene, nella storia, la transizione permanente dallo
stato di natura allo stato pubblico civile, che consolida l'
unione delle forze umane, instaura condizioni opportune di pace e
di difesa, solo grazie alle quali, abitando insieme ed insieme
lavorando le terre, unicamente se cooperano nell'imprenditoria,
grazie alla connessione della loro interdipendenza gli uomini
possono godere reali
poteri e reali diritti individuali.," ex communi consensu",
" una veluti mente", come per una determinazione comune
di una affezione umana della ragione, in realtà per il
timore comune che reinsorge di un male peggiore, o per
l 'emergere della comune speranza di un bene maggiore
( Trattato politico, II, 13-15).
La cooperazione degli
individui costituisce allora la " multitudinis potentia "
( Trattato politico, II, 17) del potere sociale, quanto per Karl
Marx
" è
la forza produttiva moltiplicata che ha origine
attraverso la cooperazione dei diversi individui, determinata
nella divisione del lavoro", che " appare a questi
individui, poichè la cooperazione stessa non è
volontaria ma naturale, non come il loro proprio potere unificato,
ma come una potenza estranea, posta al di fuori di essi, della
quale essi non sanno dove viene e dove va, che quindi non possono
più dominare" ( il cui possesso è per Marx la
condizione del dominio di una determinata classe della società,
"la cui potenza sociale, che scaqturisce dal possesso di
quelle forze, ha la sua espressione pratico-idealistica nella
forma di Stato che si ha di volta in volta"
* Ideologia tedesca, pgg.33, 37-8).
In tale esplicazione della
costituzione dello stato civile, nel Trattato Politico Spinoza
revisiona il contrattualismo di Thomas Hobbes
che
era presente nelle sue stesse trattazioni antecedenti
dell'argomento, nel Trattato Teologico-Politico ( XVI, XVII) e
nell'Ethica ( IV, 37, Sc.2), vi rivede infatti
l'impostazione che allo stato pubblico, come condizione della sua
costituzione, presuppone
l'individuo isolato
razionale, che ne è invece un risultato avanzato.
Secondo
l'esposizione del Trattato Teologico Politico già
l'individuo pre-civile vuole razionalmente il patto sociale ,
perchè già nello stato di natura aspira a dirigere
tutto secondo i dettami della ragione, ed a conservare di
conseguenza l'altrui diritto come il proprio.
Inoltre, a
differenza anche in questo da Hobbes, i cittadini non
delegano originariamente la " multitudinis potentia" ad
un terzo, ma al loro tutto, all'"absolutum imperium"
della sovranità originaria di tutto il popolo, ovverosia
alla " democrazia", come si verifica nel contratto
sociale di Rousseau,
ed è
tale " democrazia",
che a sua volta, trasferisce il potere politico di esprimere la
volontà comune di dirigere la Comunità, " una
veluti mente", ad un rappresentante in forma monarchica,
aristocratica o democratica
" Con
questo criterio una società può essere costituita
senza alcuna ripugnanza al diritto naturale, e ogni patto può
sempre essere in buona fede osservato, a condizione cioè
che ciascuno trasferisca tutta la propria potenza alla società,
la quale deterrà così da sola il sommo diritto
naturale su tutto, vale a dire il supremo potere, a cui da parte
di ciascuno, o liberamente o per timore dei castighi si
dovrà obbedire. questo diritto sulla società
si chiama "democrazia", la quale si definisce perciò
come l'unione di tutti gli uomini che ha collegialmente diritto a
tutto ciò che è in suo potere"
( Trattato
Teologico Politico, XVI, pg.382).
"
Questo diritto che definisce la potenza della moltitudine
( hoc jus quod multitudinis potentia definitur), si
è soliti denominarlo potere pubblico ( Imperium aoppellari
solet) e lo detiene asslutamente chi, per vlontà
comune ( " Ex communi consensu), ha il governo della
cosa pubblica, cioè l'incarico di stabilire, di
interpretare e di abrogare le leggi, di difendere la città,
di decidere la guerra e la pace, ecc. Se questa cura appartiene ad
un 'Assemblea composta da tutta la moltitudione, il potere
pubblico si chiama allora democrazia, ( Quod si haec cura ad
Conciluim pertineat, quod ex communi multitudine componitur, tum
Democratia appellatur), se invece appartiene ad un' Assemblea
composta soltanto di persone scelte, si chiama Aristocrazia, e se
invece la cura della cosa pubblica, e di conseguenza il potere
pubblico, appartiene a uno solo, allora si chiama Monarchia"
( Trattato
Politico II, 17)..
Il
potere pubblico assoluto democratico, ancora irrealizzato nella
storia, è dunque l'autogoverno della potenza sociale della
cooperazione, nel quale " tutta
intera la società, se è possibile, deve esercitare
collegialmente il potere ( collegialiter imperium tenere debet),
in modo che ciascuno serve se stesso e nessuno sia tenuto a
servire al suo eguale..."(
Trattato
Teologico Politico
V, pg.130).
II
In ogni forma di società,
per quanto sia perfetta, ogni autorità sovrana, una
volta istituita, con la sua stessa costituzione afferma i termini
della distinzione morale tra Trasgressione- Obbedienza delle
Leggi, Giustizia- Ingiustizia, Onesto-Turpe ( Ethica, IV, 37
Scolio 2), ( Trattato Politico, II, 18,19 e 23), ed impone
altresì l'osservanza del patto, facendo derivare, a seguito
delle punizioni minacciate dal potere coattivo, più danni
che utilità dalla sua violazione ( Trattato Teologico
Politico, V, 129; XVI, 381-382).
Tuttavia, per le ragioni
suddette, il passaggio allo stato civile in sè non
rappresenta affatto una perdita effettiva di diritti individuali
che si godrebbero solo nello stato di natura, a vantaggio della
sicurezza e della pace.
Innanzitutto al sovrano così
costituito i sudditi non cedono realmente un loro potere
assoluto, pre-esistente, sia perchè anteriormente
alla società politica non ne
detengono alcuna realizzazione individuale, in quanto uscendo
dallo stato di natura si sottraggono ad una situazione di
impotenza e di paura, in cui non è possibile il
pieno sviluppo delle proprie facolta nella cooperazione, sia
perchè con il loro potere di difendersi privatamente
non cedono che tutto ciò che può essere ceduto
realmente, ossia solo ciò a cui i cittadini possono essere
obbligati con promesse e con minacce ( Trattato Politico, III, 8;
IV, 4, 5, 6).
Nessuno può trasferire i suoi diritti fino
al punto di essere costretto a cessare di essere uomo o a fare ciò
che va contro le leggi della natura umana.
Nessuno può
cedere la facoltàdi giudicare, o può essere
indotto a credere il contrario di ciò che pensa.
Ciò
che l'autorità sovrana può comandare effettivamente,
non dipende dunque soltanto dalla potenza dell'agente
assoggettante, ma dalle attitudini innanzitutto del paziente,
assoggettato.
"Se per esempio
dico che posso fare di questa tavola ciò che voglio,
non intendo certo dire che io abbia il diritto di far si che
questo tavolo mangi l'erba; sebbene diciamo che gli uomini
dipendono non dal loro diritto ma da quello della città,
con questo non intendiamo che gli uomini perdano la loro natura o
ne assumano un'altra; e che così la Città abbia il
diritto di fare che gli uomini volino o, ciò che è
ugualmente impossibile, che gli uomini considerino con rispetto le
cose che muovono al riso o alla nausea, ma che si danno delle
circostanze poste le quali è dato il rispetto e il
timore dei sudditi nei confronti della Città, e tolte le
quali, cessa di esistere il timore, la reverenza e la stessa
Città" ( Trattato
Politico IV, 4).
La Natura umana comune,
pertanto, è sempre un limite invalicabile per il potere
politico. Esiste un ambito del diritto individuale che è
inalienabile, ciascuno per la sua stessa natura, così come
è in atto, o tende ad esserlo, ha un suo diritto che limita
ineludibilmente l'esercizio del potere sovrano, in un
rapporto di forze irriducibile tra sudditi e sovrano.
Il
diritto naturale sostanzialmente permane nei rapporti tra sudditi
e sovrano, per cui il patto sociale che tra di loro
sussiste non è irreversibile, e la Città ha tanto
diritto sui sudditi quanto è il potere effettivo che su di
loro esercita con il timore ed il rispetto che incute.
"
Giacché gli uomini non
rinunciarono mai così definitivamente al proprio diritto,
nè trasferirono mai ad altri così interamente il
proprio potere, da non incutere più alcun timore a coloro
che tale diritto e tale potere hanno ricevuto, e da non
rappresentare ancora essi stessi, benché cittadini privati
del proprio diritto, un pericolo per il loro governo costituito
più grave di quello rappresentato dai nemici"
( Trattato Teologico-Politico XVI,
pg.412).
L'autorità sovrana, per
il suo stesso sforzo di autoconservarsi, per diventare sempre più
padrona di se stessa ed effettivamente assoggettante, non in
ragione delle convenzioni del patto civile, dunque, e non solo
perchè è impossibile violare o mutare la comune
natura umana, ma in virtù del suo stesso diritto e
stato di natura, del fatto stesso che è potente
rispetto ai sudditi ed alle altre sovranità nazionali ed
intende naturalmente esserlo ancora di più, per persistere
pertanto nella sua potenza, ed effettivamente aumentala,
deve evitare di trasformare il timore dei sudditi in indignazione,
e lo stato civile in stato di guerra, con il ricorso
sciagurato ad assurdi decreti, che impongano la cessione e
il trasferimento di diritti individuali inalienabili, e al
tempo stesso deve porsi come limite i limiti e le leggi stesse
della natura umana comune, assicurandosi sempre di nuovo il
timore e la reverenza dei propri sudditi, che sono le ragioni
minime per le quali obbediscono e rispettano le leggi. Altrimenti,
agirebbe o permetterebbe di agire in modo che la rovina della
propria autorità sia la conseguenza degli atti che ha
compiuto ( Trattato Politico, IV, 4).
"A
colui, o a coloro che detengono il potere pubblico è
ugualmente impossibile presentarsi in stato di ebbrezza o di
nudità con delle prostitute, fare gli istrioni,
violare o disprezzare apertamente le leggi stabilite, e pur agendo
così conservare la loro maestà, come è
impossibile allo stesso tempo essere e non essere; quindi
trucidare i sudditi, depredarli, stuprare le vergini, ed altre
cose simili, mutano il timore in idignazione e di conseguenza lo
stato civile in stato di guerra"
( Trattato Politico, IV, 4).
Occorre
soprattutto che le autorità tollerino ciò che non
può essere vietato in assoluto, anche se è un vizio
rispetto alla perfezione umana,- evitando di stabilire tutto per
legge ( Trattato Teologico Politico, XX, pg.453, Trattato
Politico, X, 8), poichè i divieti eccessivi- che ad
esempio, con leggi sontuarie, reprimono in modo esasperante i
godimenti dei ceti signorili ( Trattato Politico, X, 8), -
eccitano il desiderio stesso di ciò che è proibito,
la tendenza alla trasgressione od alla infrazione, "perchè
noi abbiamo una inclinazione per ciò che è proibito
e desideriamo ciò che ci è rifiutato"(
Trattato Politico, X, 8), tanto più se i divieti non
possono essere né osservati né fatti valere, mentre
possono essere violati senza ledere leggi vitali.
Occorre inoltre un particolare riguardo per le opinioni ed i
costumi personali, perchè nulla induce gli uomini a
ribellarsi e ad opporsi alle leggi più che il
vedere incriminate le loro opinioni , ed additato al ludibrio
umano i loro sentimenti religuosi e i loro moventi di
generosità e di umanità.
" Gli
uomini sono per lo più così fatti, che nulla
tollerano con maggire impazienza quanto il veder tacciate di
criminose le opinioni che credono vere, e che sia imputato loro a
delitto ciò che accende in essi la pietà verso Dio
e verso gli uomini" (
Trattato Teologico-Politico, XX pg.486).
Nel
naturalismo di Spinoza l'ordine civile non può
attuare una legiferazione che non sia conforme alla
natura dei suoi prrsupposti, alla natura umana comune
innanzitutto, non è concepibile alcuna autonomia del
Politico, in tal senso, che non si riveli una Chimera. ( Trattato
Politico, IV, 4).
Non è attestata nella storia e non vi
sarà mai, ad esempio, un'uguaglianza senza conflitto
dell'uomo e della donna, perchè soltanto l'instaurazione
nella Società di uno stato di inuguaglianza in
armonia con la disuguaglianza naturale che sussiste tra l'elemento
maschile e l'elemento femminile, a favore del primo, può
comporre i loro conflitti. Non si può uguagliare per
istituzione, ciò che è disuguale per natura (
Trattato politico, IX, 4).
Per rovesciare questo rapporto di
forze naturale le Amazzoni
hanno dovuto escludere gli uomini dalla
loro società, espellendoli dal loro territorio ed uccidendo
i figli maschi ( Trattato Politico, XI, 4).
Una scelta
dunque si impone tra l' uguaglianza civile nella
conflittualità permanente dei sessi, a causa della loro
contrastante differenza naturale, e l'accettazione concorde della
disuguaglianza civile, in buona armonia con la disuguaglianza
naturale, che solo se è ottenuta la subordinazione delle
donne, porta tuttavia alla pacificazione delle lotte tra i
sessi .
Tra le due alternative, per la sua volontà
di conciliazione Spinoza sceglie la concorde sottomissione
delle donne.
Qualsiasi ordine sociale, come ogni causalità
prossima dell'uomo, rimane pertanto dentro la Natura, ed è
efficace " solo se non contraddice le causalità
naturali ma semplicemente le combina, le prolunga e le dirige"
( Mugnier-Pollet, 1976:88).
In tale contesto, sussiste non solo
una limitazione del diritto civile da parte del diritto
individuale inalienabile dei cittadini, ma altresì
una proporzionalità diretta tra il
diritto naturale delle Comunità ed il diritto naturale
individuale, tra lo sforzo di conservarsi
del sommo potere e lo sforzo di conservarsi del suddito
cittadino.
La Città, infatti, sebbene il suo
mantenimento implichi il ricorso alla coercizione più
brutale di coloro, come i pazzi ed i deliranti, che non temono le
sue minacce e non sperano i suoi benefici ( Trattato Politico III,
8), e la subordinazione civile delle donne agli uomini,
per conservarsi non solo deve rispettare i diritti inalienabili di
agire e di pensare, per lo meno dei cittadini obbedienti normali e
dei sapienti.
La città è tanto più
potente, e padrona di sè, quanto meglio asseconda gli scopi
individuali della vita in comune, con la pace e la sicurezza
nella cooperazione.
Sono i suoi stessi sudditi che con la loro
cooperazione nella concordia d'animo, perfezionandosi
razionalmente, assicurano la potenza sociale che l'autorità
politica rappresenta.
" Occorre
considerare innanzitutto, che come nello stato di natura ( per
l'Art. II del prec. cap.) ha il sommo.potere ed è
sommamente indipendente( maximeque sui juris est), l'uomo che è
condotto dalla ragione, così ha il sommo potere, ed è
sommamente indipendente, quella Città che si fonda e regge
sulla ragione. Il diritto della Città infatti è
definito dalla potenza della moltitudine, che è condotta
come da un solo pensiero ( Nam civitatis Jus potentia multitudinis
qua una veluti mente ducitur, determinatur). E questa unione degli
animi è inconcepibilo, se la Città non tende
emintemente allo scopo che la sana ragione insegna a tutti gli
uomini che è loro utile conseguire"
( Trattato Politico III, 7).
La Comunità più
forte non è dunque affatto la Comunità che assicura
il fine in vista del quale è costituita, la sicurezza e la
pace dei cittadini, instaurando un regime di terrore che deprime
la loro potenza d'agire, una condizione che più che
vera pace è
" semplice
assenza di guerra. La pace in effetti non è la
semplice assenza di guerra, è una virtù che ha la
sua origine nella forza d'animo, perchè l'obbedienza ( per
il par.19 del capitolo II) è una volontà costante di
fare ciò che secondo il diritto comune della Città
deve essere fatto. Una Città, occorre dire ancora,
dove la pace è un effetto dell' inerzia dei sudditi
condotti come un gregge, e formati unicamente per servire, merita
il nome di solitudine piuttosto che quello di Città".
"Par.5 Quando noi
diciamo che il potere pubblico migliore è quello in cui gli
uomini vivono nella concordia, intendo la vita umana, che non è
definita dalla sola circolazione del sangue e dalle altre
cose che abbiamo in comune con tutti gli animali, ma soprattutto
dalla ragione, vera virtù e vera vita della Mente" (
Trattato Politico V 4, 5).
Il fine vero della Comunità,
quanto più la sua azione è adeguata al suo sforzo di
conservarsi, aumentando la propria potenza d'agire, non è
quello di garantire una pace ed una sicurezza fini a
se stesse, a una popolazione che da parte sua cerca soltanto di
sfuggire alla morte a qualsiasi costo; suo vero scopo è
invece di assicurare la pace e la sicurezza come condizioni della
libertà, di un'esistenza che sia culto ed affermazione
della vita, nell'esercizio della conoscenza intellettuale e della
potenza massima del Corpo ( Trattato Politico V, 6).
"Dai fondamenti dello Stato, quali
sopra li abbiamo esposti, segue in modo assai evidente che il suo
ultimo fine non è di dominare gli uomini nè di
costringerli col timore e sottometterli al diritto altrui, ma, al
contrario, di liberare ciascuno dal timore, affinchè possa
vivere, per quanto è possibile in sicurezza, e cioè
affinchè possa godere nel miglior modo del proprio naturale
diritto di vivere e di agire senza danno nè proprio nè
altrui. Lo scopo dello Stato, dico, non è di convertire in
bestie gli uomini dotati di ragione o di farne degli automi, ma al
contrario di far si che la loro mente e il loro corpo possano con
sicurezza esercitare le loro funzioni , ed essi possano servirsi
della libera ragione e non lottino l'uno contro l'altro con odio,
ira, o inganno, nè si facciano trascinare da sentimenti
iniqui. IL vero fine dello Stato è dunque la libertà"
( Trattato teologico-Politico XX, pg.482).
La Città più
forte non è pertanto la Città che ha il dominio
sugli uomini come fine, la Città più forte, ossia la
Città la cui azione è adeguata al fine di acquisire
il massimo potere sociale comune dei cittadini in rapporto al
resto della natura, è in realtà la Città che
pone alla sua azione politica l'autonomia e la libertà
degli individui come fine.
La politica adeguata ha la
funzione specifica di organizzare quel concorso delle cause
esterne che è necessario allo sviluppo dell'attività
immanente dell'autonomia individuale dei cittadini, nella quale
più nulla deve poi l'uomo libero alla Città.
"L'anima,
infatti, nella misura in cui usa la ragione, non dipende dalle
somme autorità ma da se stessa, (per l'Art.II del capitolo
precedente), e così la conoscenza vera e l'amore di Dio non
possono essere sottomessi all'autorità di nessuno,
come nemmeno la carità verso il prossimo ( per l'articolo 8
di questo capitolo) "( Trattato Politico, III,
10).
La Città le
cui leggi hanno l'autonomia dell'individuo come fine, è il
migliore ambiente dove l'uomo possa divenire ragionevole, forte, e
libero, è il luogo migliore dove l'uomo ragionevole e forte
e libero possa vivere, per quanto la libertà della
Comunità, l'affermazione del potere sociale e la libertà
individuale vi convergono.
III
Alla luce del
rapporto che Spinoza instaura tra il diritto dello Stato
e la libertà umana quale suo vero fine, appare chiara la
differenza fondamentale tra l'assolutismo di Hobbes e
l'assolutismo di Spinoza, e come essa consista nell' integrità
del diritto naturale nello stato civile per Spinoza, secondo
quanto egli chiarisce nella Lettera 50:
" Gentilissimo
signore,
riguardo alla politica, la differenza tra me ed Hobbes, della
quale mi chiedete, consiste in questo, che io continuo a
mantenere integro il diritto naturale e affermo che al sommo
potere in qualunque città non compete sopra i sudditi un
diritto maggiore dell'autorità che esso ha sui sudditi
stessi, come sempre avviene nello stato naturale".
Hobbes, nella sua dottrina
del contratto sociale, secondo Spinoza aveva assegnato al
sovrano un diritto maggiore dell'autorità che esso può
effettivamente esercitare, dati i permanenti rapporti di forza tra
i sudditi e il sovrano, innanzitutto in quanto aveva reso
inviolabile il patto sociale, inoltre perché non aveva
tenuto sufficientemente conto di tutta l'estensione della
limitazione all'esercizio del potere politico costituita dai
diritti inalienabili dei sudditi.
Troppa autorità si
arroga il Leviatano
sui sudditi, perchè
il suo potere sovrano sia l'esercizio di un potere pubblico
che sia davvero forte di tutta la potenza che può esprimere
la moltitudine che lo compone, perchè egli sia
effettivamente " maximeque juris" in Natura.
Poichè la
società può conservarsi adeguatamente solo nella
misura in cui tende ad uno scopo che la sana ragione insegna a
tutti gli uomini di perseguire, e la Volontà generale
può affermarsi solo se i suoi scopi sono razionali,
la legge civile per Spinoza non rappresenta più
un limite del diritto naturale del'uomo, ma è la
condizione stessa del suo potenziamento, qualora il
cittadino possa servirsi degli ordinamenti civili e dell'utile
dello affezioni comuni, per realizzare la propria
autonomia, conformandosi solo a se stesso nell'amore
intelletuale di Dio.
Per Hobbes, invece, come per i movimenti
antinomistici che si erano manifestati nel corso del processo
rivoluzionario ch'era insorto in Inghilterra durante la sua
esistenza storica- levellers, diggers,- e che Hobbes voleva che
venissero assolutamente sottomessi all'autorità
del potere politico dello Stato, la Legge si
configurava solo come un limite da imporre alla
libertà, che da Hobbes era identificata con il diritto
stesso di fare quello che si vuole nello stato di natura, come le
forze antistuali di cui sosteneva la repressione, per le
conseguenze deleterie di tale esercizio della libertà che
non sia limitato dal diritto, la guerra di tutti contro
tutti. in cui sfocia inevitabilmente, ove viga lo stato di natura
o ad esso9 si regredisca.
" I nomi Lex
e jus vale a
dire legge e diritto, vengono spesso confusi; eppure raramente si
trovano due termini di significato più contrario. Infatti
il diritto è la libertà che la legge ci lascia; e
le leggi sono le restrizioni mediante le quali noi ci accordiamo
mutualmente di limitare la libertà l'uno dell'altro. Legge
e diritto quindi non sono meno differenti di restrizione e
libetrtà, che sono contrari; e qualsiasi cosa un uomo che
vive in uno stato faccia "jure" egli lo fa jure
civili, jure naturae,
e jure divino."( Elementi di
Legge naturale e Politica, II, 10).
" Il diritto di
natura, che gli scrittori comunemente chiamano jus
naturale è la libertà che ciascun
uomo ha di usare il suo potere. come egli vuole, per
perseguire la sua natura, cioè la sua vita e di fare perciò
qualunque cosa, secondo il suo giudizio e la sua ragione,
egli crederà che sia il mezzo più adatto a quello
scopo" ( Leviathano XIV, p.112).
Nel determinismo integrale
che lo accomuna a Spinoza, Hobbes a differenza di Spinoza non
opera la distinzione tra le volizioni e gli appetiti di cui l'uomo
è causa adeguata, e che sono originate dalle sole leggi
della sua natura, e le passioni di cui l'uomo è causa
inadeguata, nè individua la Libertà o Virtù
con il sommo potere e il sommo diritto umano, all'interno della
espressione civile del diritto naturale,
Libertà per
Hobbes significava in generale solo assenza di impedimenti
esterni al moto dei corpi, così com'è
determinato dalla concatenazione causale, e per l'uomo, in
particolare, significava l'assenza di un'opposizione esterna
all'attuazione della sua volontà, che costituisce solo
l'ultimo anello della catena delle cause dalle quali l'uomo è
determinato ad agire.
L' uomo per Hobbes non può
essere libero di volere. ma soltanto di fare ciò che
vuole, ossia di non incontrare resistenza al moto di
soddisfacimento della sua volontà.
" Desiderio,
timore, speranza e tutte le altre passioni non possono dirsi
volontarie, perchè non procedono dalla volontà ma
sono la volontà e la volontà non può essere
volontaria. Infatti nonj si può dire: io voglio vivere, e
quindi io voglio voler voler volare, ripetendo all'infinito. il
verbo volere: ciò che è assurdo e senza senso"
( Elementi I, 12,5).
In conclusione, mentre la
filosofia politica di Hobbes, ai movimenti antistatuali religiosi
della società civile non può contrapporre nella
Legge che la coercizione necessaria di desideri e volizioni,
per evitare che il " bellum omnium contra omnes"
dello stato di natura porti alla distruzione reciproca degli
uomini e delle forze in lotta, Spinoza contrappone ad essi nella
Legge la stessa condizione necessaria della vera libertà,
che è l' acquisizione della potenza assoluta di agire della
natura umana..
L'alternativa allo stato di
natura così non è più soltanto l'obbedienza
eteronoma di chi condiscende alla repressione delle sue
voglie, che ne sono il diritto naturale, solo per paura di
un male maggiore. ma l'autonomia del saggio, il vero uomo
libero, che non soddisfa le proprie voglie passionali
perchè è nella gioia suprema del distacco da esse
della perfezione assoluta del suo essere, l'attività
immanente della conoscenza partecipe dell'amor Dei intellectualis.
Non nello stato di natura
anteriore, ma in virtù della Legge civile la natura
umana può avere pienezza di vita,ed attuare la propria
potenza assoluta di agire.
a
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