Odorico Bergamaschi
Gloria degli uomini ,
Vanagloria, e Gloria di Dio in Spinoza
Nell’Ethica di Spinoza la Gloria è considerata
per il ruolo che la sua ambizione assolve nell’asservimento o nella
liberazione degli uomini, entro l’ordine comune della Natura di cui fanno parte
ed in cui rientrano gli stessi ordinamenti sociali e politici.
In Natura, nell’ordine e nella connessione sociale delle
idee, la lode o il biasimo degli altri per le nostre
azioni ed opere è ciò di cui ci gloriamo o ci vergogniamo ( Ethica, III,
definizioni XXX, XXXI).
Lode, o Biasimo, suscitando idee di Gloria, o di
vergogna, felicitano o rattristano la nostra Soddisfazione interiore, o Acquiescentia,
intensificandola o deprimendola.
Gloriarsi è una nostra felicità, in sè, e come ogni
felicità corrisponde ad un incremento di potenza e di perfezione, dunque è
buona cosa, sempre che non sia eccessiva, e sempre che
ad originarla, in un contesto conveniente, sia ciò che è onesto, ossia ciò che giova anche a
perfezionare gli altri uomini. Per la naturale tendenza dell’ uomo a trarre
piacere dal fatto di piacere agli altri, ( Ethica, III, XXIX, Scolio“), un
circolo virtuoso si instaura dove sia vigente Cortesia, o Humanitas, (
Ethica, III, XXIX; Scolio), ogni qualvolta ci fa felici di essere lodati e
amati dalle persone che amiamo, per la felicità stessa che origina in
loro ciò che di favorevole, alla vocazione della loro natura, abbiamo compiuto
a loro vantaggio. In queste circostanze l’amore e la gioia reciproca sono
pertanto la felicità di un incremento reciproco della nostra
potenza di conoscere e di agire, e buona è tale Gloria e la sua
ricerca.
E’ questa la dinamica deterministica virtuosa del retto uso della Gloria a cui Spinoza invita
nello Scolio della Proposizione X del libro V dell’Ethica, quando elabora i
principi di un retto metodo di vivere, da memorizzare e mettere in pratica,
finché non si abbia una conoscenza perfetta degli affetti della natura umana,
ossia dei modi in cui la nostra potenza di agire è incrementata o
diminuita dalle cause esterne che agiscono su di essa.
La Cupidità di piacere agli uomini è allora la Modestia della Moralità, o altrimenti a dirsi della Generosità, ( Ethica, III, LIX, Scolio), l’anelito di fare il nostro bene
facendo il bene altrui (Ethica IV, XXXVII, Scolio), così unendo a
se gli altri uomini in amicizia.
L’uomo che è animato
da tale anelito alla Gloria è virtuoso perché cerca innanzitutto l’Amore degli
altri per il bene che reca loro, e non è mosso principalmente dall’aspirazione
“di
suscitare la loro ammirazione, affinchè una dottrina porti il suo nome, in
generale, di dare alcun motivo di Invidia” ( Ethica,IV, Appendice,
capitolo XXV).
In unità di amicizia, la Gloria di questo mondo, è
la modestia della Humanitas cui è
immanente l’anelito allo scopo più alto, che per Spinoza è di godere insieme
con quanti più uomini è possibile del sommo bene. Tale sommo bene è
l’altro ordine di Gloria dell’Ethica di Spinoza, la Gloria di Dio dei testi delle Scritture. Essa va reinterpretata
secondo la scienza di Dio di Spinoza per la quale la Divinità è inseparabile dalla
Natura, e dunque da noi uomini, di cui è causa, principio e
fondamento, per cui ne dipendiamo continuamente per la nostra essenza ed
esistenza. La Gloria di Dio ci fa pertanto
di sé partecipi quando ci eleviamo alla nostra più alta conoscenza, la
conoscenza intellettuale di Dio come causa della nostra natura, che di
Dio ingenera un Amore costante ed eterno. E’ la nostra salvezza e libertà
raggiunte nell’Amor Dei Intellectualis,
in cui, per mezzo della Mente, è Dio medesimo, in noi al fondo, che
volgendosi a se stesso come nostra causa,
ama se stesso di Amore infinito, al contempo in cui essendo in noi ed
essendo per causa nostra che si ama, ci ama del medesimo infinito Amore.
L’Amore di sé dell’iniziale Soddisfazione Interiore della nostra Gloria
terrena, si rivela, così perfezionandosi, una parte dello stesso Amore di
sé di Dio, ch’è la stessa beatitudine della Gloria divina di cui parlano
le Scritture.
Ma lungo l’itinerarium mentis ad Deum
in cui Spinoza ci insegna “come l'uom si eterna” nella sua vera
Gloria, prima che tale perfezionamento trovi la teoreticizzazione del suo
compimento nel libro V dell Ethica, egli ci viene invece ammaestrando come
l’uom si perde nella VanaGloria.
Infatti ciò che può farci più attivi e potenti, e che può
rendere la nostra mente più capace di conoscere, è ciò stesso che può renderci
passivi, e ridurci nelle forme estreme di impotenza.( Ethica V, IV, Scolio). Pertanto
la ricerca della Gloria degli uomini che può elevarci fino alla Gloria di
Dio, fino ad eternarci nell’Amor dei intellectualis, in cui la nostra felicità
diventa beatitudine, ed è la beatitudine medesima di Dio, dell’Amore di sé
divino che in noi si invera, (di cui ci facciamo espressione nell’amore di cui
l’ amiamo e in cui egli si ama come nostra causa), se tale aspirazione di Gloria
si fa una letizia eccessiva o ci depotenzia nelle passioni delle nostre
tristezze, può invece asservirci alle forme estreme di follia della mente che
sono gli opposti, spesso solo apparenti, della Superbia dell’Ambizioso o dell’Abiezione
di chi di sé si vergogna intensamente,
con l’aggravante, rileva Spinoza, che benché l’Ambizione sia una
specie di autentico delirio, come l’Avarizia, o la Libidine, non appare
tale agli uomini, che non l’annoverano tra le loro malattie ( Ethica, IV, XLIV,
Scolio, Ethica III, XXVI, Scolio).
Tale VanaGloria, coltivata dall'educazione stessa, “giacché
i genitori sono soliti spronare i figli alla virtù mediante il solo stimolo
dell’Onore e dell’Invidia” (Ethica III, 55, Scolio), inizia ad
insinuarsi come si fa eccessiva la Soddisfazione interiore che originano
le lodi degli altri, e quando, ad originarla, non è la Cupidità di piacere agli uomini della Modestia dell’Onestà che è
Humanitas, o Cortesia, che aspira all’amore degli altri uomini
perché ne causa il bene, ma (è) la Cupidità di piacere agli uomini, e di
esserne lodati, a causa del fare od omettere cose a danno proprio e
al contempo altrui (Ethica III, XXIX, Scolio), pur di piacere in
particolare alla moltitudine superstiziosa del volgo,
come rileva Spinoza a più riprese nell’ Ethica, secondo la lunghezza
d’onda della critica del potere teologico politico che ispira il suo
grande Trattato Teologico-Politico (Ethica IV, LVIII, Scolio). Il volgo è
infatti incostante nei suoi umori, e l’Ambizioso, se vuole conservare la sua
buona reputazione nell’opinione dellle moltitudini, deve assecondarne la
mutevolezza continua, in competizione accanita con gli altri che ne contendono
a lui i favori, e “ da ciò nasce un’enorme sete di opprimersi a vicenda in qualunque modo,
e chi alla fine riesce vincitore, si Gloria d’aver più nociuto agli altri che
d’aver giovato a se stesso. Questa Gloria, dunque, ossia questa soddisfazione è
veramente vana, perché inconsistente”. Il Teologo o Politico che
intende soddisfare la sua Ambizione conformandosi al volgo, porta alle sue
estreme conseguenze la nocività distruttiva ed autodistruttiva della VanaGloria,
vanificante il bene proprio ed altrui, poichè finisce per trarre soddisfazione
dalla felicità smodata di avere portato alla disfatta il nemico, nel
contendersi i favori delle moltitudini, anzichè, generosamente, dall’avere
fatto il bene degli altri assecondando il proprio. L’ Ambizioso, altrimenti,
secondo l’appetito comune a noi tutti (Scolio della Proposizione XXXI,
Terza Parte dell’Ethica), che gli altri vivano secondo il proprio modo di
sentire, appetisce la lode degli altri per la contentezza che costoro trarrebbero
dal conformarsi a lui, solo che non essendo guidato dalla ragione, vorrà
che si conformino a ciò che non è meno dannoso e molesto a se stesso che
agli altri. ( Scolio a Ethica V, IV, o , differentemente, Ethica, III,
XXXI, Scolio, ove tale Aspirazione univocamente è sempre Ambizione, di
cui la stessa Modestia altrove è una manifestazione misurata ( Ethica,
IV, Definizione degli affetti XLVIII, Spiegazione).
L’Ambizioso, o Vanaglorioso, crede in tal caso di suscitare
un piacere che è tale soltanto nel suo immaginario, mentre reca agli altri esclusivamente
danno, e per trarne ancora più soddisfazione, insisterà ancora di più,
rendendosi ancora più nocivo e molesto (Ethica.III, XXIX., Scolio)
L’Ambizioso, o Superbo, persevera così facendo, perché
presume di essere più di quello che non è (Def XXXVII ), sopravvalutando
se stesso al tempo stesso in cui svaluta gli altri. Per rinforzare la sua
presunzione, a dispetto di ogni evidenza si circonderà di parassiti o adulatori
( con quale garbo, va detto, Spinoza ne omette la definizione perché
ritiene che siano finanche troppo noti), mentre rifuggirà gli uomini generosi e
la loro sincerità ( Ethica, IV, LVII). Egli “ si compiace solo della presenza
di coloro che assecondano il suo animo impotente e che da stolto lo rendono
pazzo”.(ibidem)
La sua esaltazione è tale, allora, che
diventa una autentica forma di delirio, per cui l’uomo sogna ad occhi aperti di
poter fare tutte le cose che egli compie solo in immaginazione ( Ethica, XXVI,
Scolio).
L’ Ambizione,- ossia , com’è definita altrimenti, la
Cupidità immoderata di Gloria, - essendo una Letizia eccessiva, sfrenata, come
tale è più che mai difficile da contrastare per chi ne è affetto, perché
alimenta tutte le altre sue affezioni. A proposito, Spinoza cita Cicerone, per
affermare che i migliori sono più degli altri guidati dalla Gloria. E ne trae
la notazione di come gli stessi filosofi mettono il loro nome sui libri che
scrivono sul disprezzo della Gloria, smentendosi nel loro biasimo all’atto
stesso di intestare il libro su tale disprezzo( Ethica III, Definizione 44
degli Affetti), come fanno innumerevoli maestri odierni di saggezza
spirituale,- se mi è dato di aggiornare la disamina di Spinoza-, che
raccolgono fama, ricchezza e successo con l’insegnamento ai propri discepoli di
ridursi al fallimento integrale, fino a non essere più nemmeno qualcuno in
grado di soffrire.
Ma a vociferare contro la Gloria, sono anche gli
Ambiziosi che sono impotenti a conseguirla, disperandone essi diventano Iracondi,
e presumono di apparire sapienti quanto più criticano l’abuso di Gloria e la
vanità del mondo.
Il disprezzo della Gloria di questo mondo
contraddistingue anche gli animi deboli degli Abietti, la cui Vergogna di sé
dipende dal sentimento del disprezzo che gli altri nutrirebbero nei loro
confronti, per cui tengono conto di se stessi meno del giusto. Ma secondo
l’analisi di Spinoza, tale senso infimo di sé è sempre relazionale, può infatti
dipendere dal fatto che l’Abietto immagina, a causa della sua debolezza,
“ di
essere disprezzato da tutti, e ciò mentre gli altri a nulla pensano meno che a
disprezzarlo” ( Ethica, III, Definizione 28 degli Affetti), o
altrimenti può dipendere dal fatto che egli svaluta se stesso perché
sopravvaluta gli altri, che il senso della sua impotenza nasce da un’eccessiva
stima degli altri, in quanto “ giudica la propria impotenza dalla
potenza, ossia dalla virtù degli altri” ( Ethica IV, LVII, Scolio).
Ecco perché la sua tristezza trae conforto dal potere
immaginare che siano viziosi anche coloro che stima eccessivamente, “
donde è nato quel proverbio: è un sollievo per i miseri avere dei compagni di
sventura”(ibidem).
Nessuno è più incline all’Invidia degli Abietti,
secondo Spinoza, al punto che suppone nell’Ethica che l’estrema Abiezione
spesso sia più apparente che reale, e che coloro che sono creduti estremamente
Abietti siano di fatto estremamente Ambiziosi ( Ethica, III, XXIX,
Spiegazione), o che Abietto e Superbo siano ravvicinabilissimi e ravvicinatissimi
dalla comune Invidia, benché le loro passioni siano l’una contraria all’altra,
la Superbia essendo una felicità eccessiva e l’Abiezione una tristezza estrema.
Ponendo a raffronto il Superbo e l’Abietto, Spinoza
rimarca che mentre il Superbo loda e Gloria se stesso, disprezzando gli altri,
e “ non
racconta di sè se non le proprie virtù, e degli altri se non i vizi, e vuole
essere preferito a tutti, l’Abietto riserva lode e Gloria alla propria
Abiezione”, ossia, - se ne ricapitoliamo quelle che secondo Spinoza ne
sono le manifestazioni, all’essere egli“ l’umile che arrossisce assai spesso, che
confessa i suoi vizi e racconta le virtù degli altri, che cede il passo a
tutti, e che infine, cammina a capo basso e trascura di ornarsi” e “ per
eccessiva paura della vergogna non osa ciò che osano altri suoi pari”( Ethica,
III, Definizione degli Affetti, XXIX, XXVIII).
Solo l’immaginazione vergognosa di sé dell’Abbietto, in
conformità totale a ciò che immagina
che gli altri pensino di lui, o che gli altri siano a differenza della sua
debolezza, per Spinoza può indurre l’uomo a tali forme di Lode e di Gloria di
sé, proprio per ciò che egli è nei propri stati di estrema impotenza e di
tristezza, perchè la natura umana in sé, “si ribella” contro tali stati di
Umiltà e Abiezione , nessuno, infatti “ per odio di sé , tiene conto di
se stesso meno del giusto, in quanto immagina di non potere questo e quello”,
non fosse per la idea di sé che formiamo in rapporto a ciò che
immaginiamo che gli altri pensino di noi, o che più di noi siano capaci
di fare o di essere.
Di Spinoza è talmente consequenzialmente impietosa e
inesorabile la considerazione della natura umana a riguardo, che a tal
punto sente l’esigenza di avvertire i lettori che sta considerando gli affetti
umani, e le loro proprietà, alla stessa stregua delle cose naturali, che dunque
desume le conseguenze di ogni nostra tristezza o letizia, come “ dalla
natura del triangolo segue che i suoi tre angoli sono uguali a due retti”,
e sente l’urgenza di rammentare loro che il solo criterio di valore che l’
orienta è l’utilità umana ( Ethica IV, LVII, Scolio). Ed è secondo tale
criterio, in ragione della nostra convenienza ad essere utili l’uno
all’altro, potenziandoci a vicenda, che Spinoza è critico della Vanagloria quanto lo è del disprezzo della Gloria
umana, dato che l’utile reciproco richiede lo sforzo, soprattutto, di
osservare le azioni degli uomini più per correggerle che per censurarle, al
contrario di ciò che fanno gli Abietti.
Occorre considerare infatti le virtù più che i vizi
umani, se il nostro reale intento è di lasciarci guidare dalla ragione nel
governo dei nostri affetti ed appetiti, grazie al solo amore della libertà.
Solo se procederemo in tal senso, infatti, è alle virtù e alle loro cause che
guarderemo, per godere della loro conoscenza e della vita in conformità
ad esse, più di quanto non ci compiaceremo di considerare i vizi degli
uomini, per godere di quella falsa specie di libertà che consiste
nell’abbassare gli uomini” hominesque obtrectare” per elevarci a loro danno.
(Ethica V, 10, Scolio).
Fine
Altre considerazioni spinoziane in tema di Gloria
Ho così raccordato, nella loro dinamica, gli
Affetti di gioia e di tristezza che originano la ricerca della Gloria umana e
la Vanagloria, e la cui soddisfazione interiore trova la sua perfezione
nell’Amor Dei intellectualis.
I teologi delle varie religioni per assoggettare ai cupi
sogni di Gloria del proprio potere
teologico- politico le moltitudini del volgo, devono assecondare le manifestazione
di Speranza, di Paura, di Umiltà, di Pentimento, della Superstizione del medesimo
volgo, cosi terribile se non ha paura “ terret vulgus, nisi metuat”, asserisce
Spinoza citando Tacito. A sua volta la moltitudine del volgo asseconda le
ambizioni di Gloria del clero finchè ne può essere alimentata la credulità che
i teologi, e i loro “predikanten”, siano depositari della rivelazione diretta
di Dio in parole e opere. Essa si manifesterebbe nelle Scritture ritenute
Sacre, che in ogni loro lettera sarebbero la parola di Dio, di cui tali
pastori e guide siarrogano di essere i soli legittimi interpreti. Le altre principali manifestazioni di Dio
assoggettanti sono i miracoli, compiuti contro natura dalla mano immediata di Dio, e che
i religiosi certifichino come veramente accaduti, o altrimenti sono le loro virtù
profetiche, o la loro ispirazione divina grazie ad un presunto lume
soprannaturale. E’ per affermare la libertà di pensiero minacciata dalle autorità
dogmatiche e dai loro sostenitori
politici nella libera Repubblica d’Olanda dei suoi tempi, che Spinoza scrisse
il Trattato Teologico –Politico.
Come egli confessò nella prefazione al De intellectus Emendatione, debole era
il lui l’attaccamento alla Gloria terrena, che pure anima a suo giudizio i
migliori spiriti, quanto intenso era l’anelito alla Gloria biblica dell’Amor
Dei Intellectualis. Avrebbe potuto altrimenti affrontare l’oltraggio recato dai
poteri teologico-politici e dagli uomini del tempo alla sua ricerca
filosofica ed alla sua persona? Disebraicizzato dall’herem della scomunica
inflittagli dalla Comunità ebraica di Amsterdam, costretto a differenza di
coloro di cui disse che ripongono il proprio nome nella copertina delle opere
in cui disprezzano la Gloria, ad attribuire un’identità falsa all’autore del
proprio Trattato Teologico-Politico, per evitare la tortura e il carcere, o il
patibolo, messo al bando degli uomini
con la sua opera, quando si scoprì che ne era l’autore, costretto a non dare
mai alla luce in vita la propria Ethica somma; essendo egli rivoluzionario ed
empio, perchè era il fautore intransigente e coerente della più onesta
vita morale, votata alla libertà rischiarata dalla luce della ragione, e insieme
da una religione ispirata dai soli principi fraterni di giustizia e carità.
[1][1] Confronta lo Scolio I alla Proposizione 37 della Parte Quarta
dell’ Etica
SCHOLIUM I. Qui ex solo affectu conatur, ut reliqui ament quod ipse amat, et ut reliqui ex suo ingenio vivant, solo impetu agit, et ideo odiosus est, praecipue iis, quibus alia placent, quique propterea etiam student et eodem impetu conantur, ut reliqui contra ex ipsorum ingenio vivant. Deinde quoniam summum, quod homines ex affectu appetunt, bonum saepe tale est, ut unus tantum eius possit esse compos, hinc fit, ut qui amant, mente sibi non constent, et dum laudes rei, quam amant, narrare gaudent, timeant credi. At qui reliquos conatur ratione ducere, non impetu, sed humaniter et benigne agit et sibi mente maxime constat. Porro quicquid cupimus et agimus, cuius causa sumus, quatenus Dei habemus ideam, sive quatenus Deum cognoscimus, ad r e l i g i o n e m refero. Cupiditatem autem bene faciendi, quae eo ingeneratur, quod ex rationis ductu vivimus, p i e t a t e m voco. Cupiditatem deinde, qua homo, qui ex ductu rationis vivit, tenetur ut reliquos sibi amicitia iungat, h o n e s t a t e m voco, et id h o n e s t u m , quod homines, qui ex ductu rationis vivunt, laudant, et id contra t u r p e , quod conciliandae amicitiae repugnat. Praeter haec civitatis etiam quaenam sint fundamenta ostendi. Differentia deinde inter veram virtutem et impotentiam facile ex supra dictis percipitur: nempe quod vera virtus nihil aliud sit, quam ex solo rationis ductu vivere; atque adeo impotentia in hoc solo consistit, quod homo a rebus, quae extra ipsum sunt, duci se patiatur et ab iis ad ea agendum determinetur, quae rerum externarum communis constitutio, non autem ea, quae ipsa ipsius natura in se sola considerata postulat. Atque haec illa sunt, quae in schol. prop. 18. huius partis demonstrare promisi, ex quibus apparet legem illam de non mactandis brutis magis vana superstitione et muliebri misericordia, quam sana ratione fundatam esse. Docet quidem ratio nostrum utile quaerendi necessitudinem cum hominibus iungere; sed non cum brutis aut rebus, quarum natura a natura humana est diversa, sed idem ius, quod illa in nos habent, nos in ea habere. Imo quia uniuscuiusque ius virtute seu potentia uniuscuiusque definitur, longe maius homines in bruta, quam haec in homines ius habent. Nec tamen nego bruta sentire, sed nego, quod propterea non liceat nostrae utilitati consulere et iisdem ad libitum uti; eademque tractare, prout nobis magis convenit; quandoquidem nobiscum natura non conveniunt et eorum affectus ab affectibus humanis sunt natura diversi. Vide schol. prop. 57. P. 3. Superest, ut explicem, quid iustum, quid iniustum, quid peccatum et quid denique meritum sit. Sed de his vide sequens scholium.
SCHOLIUM
[m1][1][1] Confronta Etica IV, £7, Scolio 1:SCHOLIUM I. Qui ex solo affectu conatur, ut reliqui ament quod ipse amat, et ut reliqui ex suo ingenio vivant, solo impetu agit, et ideo odiosus est, praecipue iis, quibus alia placent, quique propterea etiam student et eodem impetu conantur, ut reliqui contra ex ipsorum ingenio vivant. Deinde quoniam summum, quod homines ex affectu appetunt, bonum saepe tale est, ut unus tantum eius possit esse compos, hinc fit, ut qui amant, mente sibi non constent, et dum laudes rei, quam amant, narrare gaudent, timeant credi. At qui reliquos conatur ratione ducere, non impetu, sed humaniter et benigne agit et sibi mente maxime constat. Porro quicquid cupimus et agimus, cuius causa sumus, quatenus Dei habemus ideam, sive quatenus Deum cognoscimus, ad r e l i g i o n e m refero. Cupiditatem autem bene faciendi, quae eo ingeneratur, quod ex rationis ductu vivimus, p i e t a t e m voco. Cupiditatem deinde, qua homo, qui ex ductu rationis vivit, tenetur ut reliquos sibi amicitia iungat, h o n e s t a t e m voco, et id h o n e s t u m , quod homines, qui ex ductu rationis vivunt, laudant, et id contra t u r p e , quod conciliandae amicitiae repugnat. Praeter haec civitatis etiam quaenam sint fundamenta ostendi. Differentia deinde inter veram virtutem et impotentiam facile ex supra dictis percipitur: nempe quod vera virtus nihil aliud sit, quam ex solo rationis ductu vivere; atque adeo impotentia in hoc solo consistit, quod homo a rebus, quae extra ipsum sunt, duci se patiatur et ab iis ad ea agendum determinetur, quae rerum externarum communis constitutio, non autem ea, quae ipsa ipsius natura in se sola considerata postulat. Atque haec illa sunt, quae in schol. prop. 18. huius partis demonstrare promisi, ex quibus apparet legem illam de non mactandis brutis magis vana superstitione et muliebri misericordia, quam sana ratione fundatam esse. Docet quidem ratio nostrum utile quaerendi necessitudinem cum hominibus iungere; sed non cum brutis aut rebus, quarum natura a natura humana est diversa, sed idem ius, quod illa in nos habent, nos in ea habere. Imo quia uniuscuiusque ius virtute seu potentia uniuscuiusque definitur, longe maius homines in bruta, quam haec in homines ius habent. Nec tamen nego bruta sentire, sed nego, quod propterea non liceat nostrae utilitati consulere et iisdem ad libitum uti; eademque tractare, prout nobis magis convenit; quandoquidem nobiscum natura non conveniunt et eorum affectus ab affectibus humanis sunt natura diversi. Vide schol. prop. 57. P. 3. Superest, ut explicem, quid iustum, quid iniustum, quid peccatum et quid denique meritum sit. Sed de his vide sequens scholium.
SCHOLIUM