Ontologia degli Appetiti Umani e Superstizione |
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VIII.
Passioni. Le Letizie
eccessive
Il
tipo ulteriore di Passioni è dato dalle Gioie immoderate. Se
una o più parti del Corpo, come della Mente, sono affette più delle
altre da dei corpi esterni e dalle loro idee, si
determina una Gioia eccessiva o Titillatio del Corpo. la cui potenza,
essendo più forte di quella degli altri atti del Corpo e della Mente, si
fissa tenacemente, impedendo al Corpo di essere affetto nei moltissimi
altri modi che non consentono alla Mente di concepire adeguatamente (
Etica IV, 43, 39).
L’Amore e la Cupidità eccessive che ne derivano sussumono sotto
di sé la Mente ed il Corpo, fissando la natura dell’ uomo nella
considerazione di u n solo oggetto e nell’ attaccamento ad un solo
affetto.
E’
il caso dell’Avarizia, dell’ Ambizione, della Libidine,
della ricerca smisurata ed esclusiva, fine a se stessa, di onori,
ricchezze, piaceri. ( Etica, IV, 43, 44).
Nella Titillatio le forze esterne
non favoriscono lo sviluppo della nostra potenza assoluta di agire, la
quale soltanto ci consente di sussumere, sotto le sole leggi della nostra
natura, gli stessi affetti esterni che ne hanno assecondato
l’affermazione.
Potenziando eccessivamente una o parecchie parti soltanto del
nostro Corpo, queste Gioie o Letizie passive impediscono le altre azioni
del Corpo e le percezioni adeguate della mente, determinando la nostra
forza ad esprimere la potenza prevalente delle cose esterne.
“
Strumento passivo delle cause esterne che l’utilizano per realizzare i
propri effetti, l’uomo è forte e cionostante impotente”, asserisce a
commento Mugnier Pollet ( Mugnier Pollet, 1976:97).
L’eccesso di un’affezione parziale di Gioia, superiore alla
nostra potenza, implica nella Mente un eccesso di immagini rispetto alla
sua potenza immaginativa, che cominciano pertanto a
confondersi.Soprattutto nelle Letizie eccessive , in luogo delle nozioni
comuni delle proprietà comuni degli enti, hanno così origine le
astrazioni immaginative dei Termini Trascendentali, come
Ente, Cosa, eccetera, e le Idee Universali come
Uomo, Cavallo, Cane ( Etica II, 40, 1; De Intellectus Emendatione 42).
Si tratta di immagini-modello
generali, assunte a
forme archetipiche normative delle cose, che da ciascuno sono formate a
seconda delle disposizioni passive differenti del proprio Corpo, le quali
sono le idee stesse che scatenano gli antagonismi interumani e le
controversie dei filosofi,
quando vogliamo essere amati, creduti ed onorati dagli altri, proprio in
ciò in cui più le affezioni più ci differenziano e ci singolarizzano,
rendendoci più contrari gli
uni agli altri.
Le principali Sollecitazioni eccessive definite da
Spinoza sono la Stima eccessiva, la Superbia, che è una forma di Stima
eccessiva, l’Ambizione, la, la cieca Audacia,
l’ Ingordigia, l’Ubriachezza, l’Avarizia e la Libidine.
La Superbia è la
Stima eccessiva di se stessi in chi si ritiene superiore agli altri solo
perché li considera meno del giusto( Etica III, Definizione 28 degli
Affetti; Etica IV, 57). E’
pertanto il contrario della Umiltà.
L’Ambizione è
invece l’eccesso della
stessa modificazione delle Cupidità che è costitutiva della nostra
socialità individuale, è infatti la modificazione immoderata dell’ Appetito di
una cosa che si genera in noi
per imitazione degli Affetti dei nostri simili ( Etica III, 27).
L’immaginazione di un affetto di un Corpo
esterno simile al nostro esprime infatti un’affezione del nostro corpo
che è simile a quest’affetto, come è possibile rilevare già nel
transitivismo del comportamento infantile:
“ Sperimentiamo, infatti, che i bambini, il cui corpo si trova continuamente come in equilibrio, ridono e piangono solo perché vedono ridere o piangere gli altri; e tutto ciò, inoltre, che vedono fare ad altri , subito desiderano imitarlo, e infine desiderano per sé tutto ciò di cui immaginano che altri si dilettino; e ciò perché le immagini delle cose sono, come abbiamo detto, le affezioni del Corpo umano, cioè i modi in cui il Corpo umano è affetto dalle cause esterne ed è disposto a fare questo o quello ( Etica, III, 32, Scolio)”.
Basta pertanto che noi immaginiamo l’ Amore o la Avversione di un
nostro simile per una cosa, perché anche
noi amiamo questa cosa o l’abbiamo in odio.
E’
l’Emulazione questo semplice sforzo che compiamo per piacere ai
nostri simili ( Etica, III, definizione 32).
Ma noi
possiamo allietarci ancora
di più a causa dell’ imitazione degli affetti di gioia nei quali
i nostri simili, da noi sollecitati,
già ci emulano a loro volta, godendo della Gloria di essere
elogiati ed amati da essi, come la causa
della loro Gioia ( Etica III, definizione 31 degli Affetti).
L’ Ambizione è di conseguenza l’ulteriore sforzo immoderato
della Cupidità volto a che
ciascuno approvi od abbia in odio ciò che noi emuliamo od irridiamo,
allorché per esagerato o cieco amore di Gloria noi vogliamo essere
approvati dai nostri simili, sottomettendoli proprio a quelle nostre
passioni e a quei modelli universali che ne sono le idee, nei quali
possiamo essere maggiormente contrari gli uni agli altri ( Etica,
definizione 44 degli Affetti; Etica III, 31 ed Etica IV, 37, Scolio I).
Ma in
sé, in quanto sia invece Appetito attivo,
determinato prevalentemente dalle leggi della nostra natura, la stessa
Cupidità di cui l’Ambizione è
un eccesso, ossia l’aspirazione che gli altri ci imitino nel nostro modo
di sentire, può esprimere una volontà positiva di umanità e di
concordia, costituendo la Cortesia o Modestia della Moralità ( Etica III, 29, Scolio; Etica III, definizione 43
degli Affetti).
Si deve infatti notare anzitutto che è uno
solo e medesimo l’ Appetito per il quale l’ uomo è detto tanto attivo
quanto passivo. Per esempio,
noi abbiamo mostrato che la natura umana è stata disposta in modo che
ciascuno appetisca che gli altri vivano secondo il suo modo di sentire (
vedi lo Scolio della
Proposizione 31 della Terza parte); e questo Appetito in un uomo
che non è guidato dalla ragione è una passione che viene detta
Ambizione e non differisce molto dalla Superbia; mentre, in un uomo che
vive secondo il dettame della
ragione, è una azione, ossia una virtù, che si chiama Moralità ( Vedi
lo Scolio I della Proposizione 37 della Quarta Parte e la Dimostrazione 2
della medesima Proposizione.) “ ( Etica, V, Proposizione IV, Scolio).
( Vedi
Etica III, 32, Scolio***).
Mentre
l’Ambizione è una volontà del
nostro conformismo passivo, è
la Cupidità di essere approvati dagli altri assoggettandoli alle nostre
stesse passioni , la Moralità è invece l’ambizione del nostro conformismo attivo, è la volontà di unire a sé gli altri in
amicizia che in noi è dettata dall’ Onestà, ossia dall’ esigenza,
immanente alla ragione, di
comunicare la propria conoscenza intellettuale, che è quanto per Spinoza
promuove la vera vita di
relazioni interumane.
La Moralità è dunque la volontà di conformismo attivo dell’ uomo libero che” non si conforma a nessuno se non a sé stesso” ( Etica IV, 66, Scolio), ed aspira all’ accordo con gli altri uomini in ciò in cui gli uomini, cercando al massimo per sé il proprio utile, vivono prevalentemente secondo le leggi della loro natura individuale e convengono al massimo tra loro, rendendosi di somma utilità gli uni agli altri, nel godimento comune della vita relazionale, il cui sommo bene, la conoscenza adeguata dell’ essenza eterna ed infinita di Dio, è un bene che suscita unanime concordia, poiché ”è comune a tutti gli uomini e può essere posseduto da tutti gli uomini, in quanto sono della medesima natura” ( Etica, IV, 36, dimostrazione), un bene, che per imitazione virtuosa degli affetti di gioia che sono costituiti dall’ amore intellettuale di Dio comunicato agli altri uomini, affinché tutti ne godano, e tanto più ( per la proposizione 37 della III Parte) quanto egli fruirà di questo bene…( Etica IV, 37, dimostrazione 1[m1]). [1]
[1]
Confronta lo
Scolio I alla
Proposizione 37 della Parte Quarta dell’ Etica SCHOLIUM
I. Qui ex solo affectu conatur, ut reliqui ament quod ipse amat, et ut
reliqui ex suo ingenio vivant, solo impetu agit, et ideo odiosus est,
praecipue iis, quibus alia placent, quique propterea etiam student et
eodem impetu conantur, ut reliqui contra ex ipsorum ingenio vivant.
Deinde quoniam summum, quod homines ex affectu appetunt, bonum saepe
tale est, ut unus tantum eius possit esse compos, hinc fit, ut qui
amant, mente sibi non constent, et dum laudes rei, quam amant, narrare
gaudent, timeant credi. At
qui reliquos conatur ratione ducere, non impetu, sed humaniter et
benigne agit et sibi mente maxime constat. Porro quicquid cupimus et
agimus, cuius causa sumus, quatenus Dei habemus ideam, sive quatenus
Deum cognoscimus, ad r e l i g i o n e m
refero. Cupiditatem
autem bene faciendi, quae eo ingeneratur, quod ex rationis ductu
vivimus, p i e t a t e m
voco. Cupiditatem deinde, qua homo, qui ex ductu rationis vivit,
tenetur ut reliquos sibi amicitia iungat, h o n e s t a t e m
voco, et id h o n e s t u m ,
quod homines, qui ex ductu rationis vivunt, laudant, et id contra
t u r p e , quod conciliandae amicitiae
repugnat. Praeter haec civitatis etiam quaenam sint fundamenta ostendi.
Differentia deinde inter veram virtutem et impotentiam facile ex supra
dictis percipitur: nempe quod vera virtus nihil aliud sit, quam ex
solo rationis ductu vivere; atque adeo impotentia in hoc solo
consistit, quod homo a rebus, quae extra ipsum sunt, duci se patiatur
et ab iis ad ea agendum determinetur, quae rerum externarum communis
constitutio, non autem ea, quae ipsa ipsius natura in se sola
considerata postulat. Atque haec illa sunt, quae in schol.
prop. 18. huius partis demonstrare promisi, ex quibus apparet
legem illam de non mactandis brutis magis vana superstitione et
muliebri misericordia, quam sana ratione fundatam esse. Docet quidem
ratio nostrum utile quaerendi necessitudinem cum hominibus iungere;
sed non cum brutis aut rebus, quarum natura a natura humana est
diversa, sed idem ius, quod illa in nos habent, nos in ea habere. Imo
quia uniuscuiusque ius virtute seu potentia uniuscuiusque definitur,
longe maius homines in bruta, quam haec in homines ius habent. Nec
tamen nego bruta sentire, sed nego, quod propterea non liceat nostrae
utilitati consulere et iisdem ad libitum uti; eademque tractare, prout
nobis magis convenit; quandoquidem nobiscum natura non conveniunt et
eorum affectus ab affectibus humanis sunt natura diversi. Vide schol.
prop. 57. P. 3. Superest, ut explicem, quid iustum, quid iniustum, quid peccatum et quid
denique meritum sit. Sed de his vide sequens
scholium. SCHOLIUM
[m1][1]
Confronta
Etica IV, £7, Scolio
1:SCHOLIUM I. Qui ex solo affectu conatur, ut reliqui ament quod
ipse amat, et ut reliqui ex suo ingenio vivant, solo impetu agit, et
ideo odiosus est, praecipue iis, quibus alia placent, quique
propterea etiam student et eodem impetu conantur, ut reliqui contra
ex ipsorum ingenio vivant. Deinde quoniam summum, quod homines ex
affectu appetunt, bonum saepe tale est, ut unus tantum eius possit
esse compos, hinc fit, ut qui amant, mente sibi non constent, et dum
laudes rei, quam amant, narrare gaudent, timeant credi. At qui reliquos conatur ratione
ducere, non impetu, sed humaniter et benigne agit et sibi mente
maxime constat. Porro quicquid cupimus et agimus, cuius causa sumus,
quatenus Dei habemus ideam, sive quatenus Deum cognoscimus, ad
r e l i g i o n e m
refero. Cupiditatem
autem bene faciendi, quae eo ingeneratur, quod ex rationis ductu
vivimus, p i e t a t e m
voco. Cupiditatem deinde, qua homo, qui ex ductu rationis vivit,
tenetur ut reliquos sibi amicitia iungat, h o n e s t a t e m
voco, et id h o n e s t u m ,
quod homines, qui ex ductu rationis vivunt, laudant, et id contra
t u r p e , quod conciliandae
amicitiae repugnat. Praeter haec civitatis etiam quaenam sint
fundamenta ostendi. Differentia deinde inter veram virtutem et
impotentiam facile ex supra dictis percipitur: nempe quod vera
virtus nihil aliud sit, quam ex solo rationis ductu vivere; atque
adeo impotentia in hoc solo consistit, quod homo a rebus, quae extra
ipsum sunt, duci se patiatur et ab iis ad ea agendum determinetur,
quae rerum externarum communis constitutio, non autem ea, quae ipsa
ipsius natura in se sola considerata postulat. Atque haec illa sunt,
quae in schol.
prop. 18. huius partis demonstrare promisi, ex quibus apparet
legem illam de non mactandis brutis magis vana superstitione et
muliebri misericordia, quam sana ratione fundatam esse. Docet quidem
ratio nostrum utile quaerendi necessitudinem cum hominibus iungere;
sed non cum brutis aut rebus, quarum natura a natura humana est
diversa, sed idem ius, quod illa in nos habent, nos in ea habere.
Imo quia uniuscuiusque ius virtute seu potentia uniuscuiusque
definitur, longe maius homines in bruta, quam haec in homines ius
habent. Nec tamen nego bruta sentire, sed nego, quod propterea non
liceat nostrae utilitati consulere et iisdem ad libitum uti;
eademque tractare, prout nobis magis convenit; quandoquidem nobiscum
natura non conveniunt et eorum affectus ab affectibus humanis sunt
natura diversi. Vide schol.
prop. 57. P. 3. Superest, ut explicem, quid iustum, quid iniustum, quid peccatum et quid
denique meritum sit. Sed de his vide sequens
scholium. SCHOLIUM
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